Il referendum per l’indipendenza

Il 25 settembre si svolge una consultazione elettorale che nasconde una gran quantità di trappole. La giusta richiesta di indipendenza si scontra con l’equilibrio più che instabile della regione. Anche la Russia scende in campo

«Il Kurdistan non è Iraq». È una delle numerose scritte in inglese e curdo che campeggiano in questi giorni nelle strade e nelle piazze di Erbil, la capitale del Kurdistan iracheno, colorata a festa con festoni rossi, bianchi e verdi e il sole giallo della bandiera curda. Fra pochi giorni si terrà il referendum per l’indipendenza, fortemente voluto da Masoud Barzani, il presidente della regione autonoma curda (Krg) dell’Iraq.

Erbil conta oggi 850 mila abitanti, ma è un’antichissima città che conserva ancora notevoli vestigia del suo passato. I nostri antenati greci e romani la chiamavano Àrbela, ed è il luogo dove morì l’ultimo re achemenide persiano, quel Dario III che Alessandro Magno sconfisse (nel IV secolo a.C.) in tre battaglie, una delle quali (forse quella di Isso) è rappresentata nel famosissimo e straordinario mosaico pompeiano proveniente dalla Domus del Fauno.

L’intera regione del Kurdistan iracheno, in cui si svolgerà il referendum, conta poco più di 8 milioni di abitanti, in maggioranza curdi, ma anche turcomanni e arabi. Sono sunniti e sciiti, oltre che yazidi e cristiani caldei e assiri. E non è l’unica terra curda: sparsi fra Turchia, Siria e Iran ci sono almeno altri 25 milioni di curdi, senza contare quelli della diaspora sparsa in tutto il mondo.

Il referendum per l’indipendenza ha scatenato all’esterno, com’era ampiamente prevedibile, una pressoché unanime presa di posizione contraria, se non in molti casi ostile: è forse la prima volta che i governi di Turchia, Siria, Iran e Iraq la pensano allo stesso modo su qualcosa. E con loro concordano, con motivazioni simili e talora diverse, anche Usa, Unione Europea e Nazioni Unite. L’eccezione è Israele, che vede in un Kurdistan iracheno indipendente un possibile alleato che potrebbe frapporsi all’espandersi dell’influenza iraniana e sciita nell’area.

Le accuse alla presa di posizione pro-referendum del presidente Barzani non sono del tutto infondate: ha ottenuto dal parlamento di Erbil il via alla consultazione senza considerare il dissenso del partito turkmeno e di quello del gruppo islamico curdo, contrari al referendum. In realtà l’esito della consultazione in favore dell’indipendenza è abbastanza scontato, quello che conta però non sarà probabilmente l’esito in sé quanto la partecipazione e la percentuale dei sì fra i votanti.

L’altro nodo fortemente contestato è l’adesione al referendum della regione meridionale di Kirkuk e Khamaqin. Il capo del governo iracheno, Haydar al-Abadi, afferma con forza che Kirkuk non è una città curda, che è esterna alla regione del Kurdistan iracheno. Vero, ma i partigiani di Barzani ribattono che «Kirkuk era una città curda» finché ai tempi di Saddam Hussein non è stata de-curdizzata, e poi quando a Kirkuk l’esercito iracheno nel 2014 si è volatilizzato di fronte all’avanzata del Daesh, i peshmerga curdi sono invece rimasti e adesso non intendono andarsene. Ad essere franchi, il problema non è semplicemente di natura etnica o politica: Kirkuk significa petrolio e gas in abbondanza e facile da estrarre. Senza Kirkuk il futuro Kurdistan indipendente non starebbe in piedi e l’Iraq senza Kirkuk finirebbe in grossi guai economici. La classica coperta troppo corta.

E Mosca? I russi appoggiano apertamente gli altri curdi, i rojava della Siria, ma nei confronti di Erbil sembravano molto distaccati. Dicevano che il referendum di Barzani non era opportuno, ma non si erano pronunciati più di tanto fino a pochi giorni fa. Poi, a una settimana appena dal referendum, viene fuori la notizia un po’ scioccante di un accordo tra il governo regionale di Erbil (Krg) e Rosneft, il colosso russo (a partecipazione statale) dell’energia. Un accordo da un miliardo di Usd per la costruzione di gasdotti da Kirkuk verso la Turchia, stipulato senza consultare Baghdad. Haydar al-Abadi a questo punto non ci ha visto più ed ha chiesto ed ottenuto dal Parlamento iracheno una diffida a tenere il referendum, che si aggiunge alle precedenti accuse mosse al governo Barzani di non rispetto dei patti Opec (590 mila barili al giorno di greggio fuori quota sarebbero stati venduti clandestinamente alla Turchia) e al blocco dei finanziamenti di Baghdad al governo regionale del Kurdistan (in deficit di 18 miliardi di Usd lo scorso anno).

Quindi, se da una parte l’aspirazione alla piena autonomia del Kurdistan iracheno sarebbe più che legittima, e questa aspirazione i curdi l’hanno duramente difesa combattendo senza sosta contro il Daesh, dall’altra i giochi di potere non mancano certo e il pericolo di scatenare un nuovo conflitto di tipo “siriano” è dietro l’angolo, molto grave e da non sottovalutare. Meglio fermarsi prima. Magari, come sottolinea il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, rispettando «la sovranità, l’integrità territoriale e l’unità dell’Iraq» puntare con il sostegno e l’aiuto dell’Onu a un dialogo serio e a una ricerca condivisa dei compromessi indispensabili per affrontare finalmente questioni irrisolte che si trascinano ormai da almeno un secolo.

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