Rassegnati alla crisi?

I dati Istat hanno confermato che l’Italia è in recessione. Ma accettarla passivamente è il primo errore da non fare: la parola all’economista Benedetto Gui
Italia in recessione

Il dato ha fatto scalpore non perché fosse sorprendente, ma al contrario perché è stato giudicato la scoperta dell’acqua calda: per l’Istat l’Italia è in recessione tecnica, essendo il Pil in calo (- 0,7 per cento) per il secondo trimestre consecutivo. Tutte quelle famiglie che – sempre secondo il nostro Istituto di statistica – stanno comprimendo i consumi anche dei generi di prima necessità (- 1,5 per cento), sicuramente già lo sapevano: che cos’altro possono dunque dirci questi numeri? Lo chiediamo a Benedetto Gui, docente di economia all’Università di Padova.
 
I dati Istat hanno confermato una realtà che singoli e famiglie già da tempo affrontano ogni giorno: che valore hanno dunque, se non aggiungono nulla di nuovo?
 
«Questa conferma, a mio avviso, sottolinea l’importanza di fare qualcosa. Accettare passivamente di dover essere in recessione perché dobbiamo risanare i conti pubblici vuol dire accettare passivamente il triplice spreco di risorse della disoccupazione: bisogni che restano insoddisfatti appunto perché queste risorse non vengono utilizzate, famiglie senza reddito, e uno stato di vita molto pesante per chi ne è colpito. La logica finanziaria dice che abbiamo un soggetto, la Pubblica amministrazione, che è in grave squilibrio, e deve quindi tassare di più e spendere di meno: avremmo bisogno di qualcuno che potesse fare il contrario, svolgendo il necessario ruolo anticiclico di solito esercitato dallo Stato viene a mancare. E' necessario far decollare progetti di investimento con capitali privati, ad esempio nel campo delle opere pubbliche e dell’energia rinnovabile, in cui la Pubblica amministrazione faccia le regole del gioco e dia alcune garanzie di profitto. Ci sono anche risorse europee da utilizzare. Non vedo messa al primo posto questa urgenza di far ripartire gli investimenti, ma piuttosto una sorta di rassegnazione alla recessione. Vanno bene per un po' le politiche di austerità come chiedono i tedeschi, ma non bastano: l’efficacia delle stesse manovre di risanamento dei bilanci pubblici viene messa in forse, se non si trova il modo che qualcuno spenda e riavvii l'attività economica».
 
C’è tuttavia una discrepanza tra i dati Istat, che indicano un calo del Pil dello 0,7 per cento nell’ultimo trimestre e una crescita acquisita del – 0,5 per cento nel 2012, e quelli Ocse, che invece vedono l’Italia avanzare di 0,4 punti percentuali nel suo superindice: come spiegare queste differenze?
 
«Bisogna tenere conto che si tratta di dati non sempre direttamente confrontabili, riferiti a intervalli di tempo o elaborati con metodi diversi: i dati del Pil hanno un'inerzia maggiore, mentre il superindice Ocse è più reattivo a cambiamenti di tendenza anche modesti e non sempre durevoli. Il che ci fa ben sperare, ma temon che l'uscita dalla crisi richiederà ancora un po' di tempo».
 
Davanti ai consumi in calo e alle previsioni di crescita negative, come guardare al 2012?
 
«Prima di tutto è necessario superare la retorica del “non possiamo permettercelo”. A livello internazionale sarebbe possibile sostenere delle politiche di “rilancio concordato”: se lo facesse un solo Paese finirebbe per creare domanda a sue spese a beneficio anche di tutti i Paesi vicini, ma se si trattasse di uno sforzo coordinato sarebbe diverso. Il problema, comunque, non è tanto rilanciare i consumi – che, se non fosse per le disuguaglianze, sarebbero comunque sufficienti –, ma di cogliere un'opportunità unica per dare una svolta ai tanti problemi strutturali della nostra economia, che sono e sempre più saranno dei lacci che ostacolano la vita economica, sociale e non solo».
 

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