Rai. Cosa è in gioco

Si discute della  decisione di far pagare il canone televisivo con la bolletta della luce. Ma quale tipo di servizio pubblico si vuole mantenere? La sfida di tagliare gli sprechi rilanciando una informazione libera e plurale  
Rai

Pagare tutti per pagare meno. E’ quello che inizialmente aveva promesso il governo ai contribuenti inserendo fin dal gennaio 2015 il canone Rai, direttamente nella bolletta elettrica. Norma che avrebbe dovuto finire nella legge di stabilità, e che nelle intenzioni dell’esecutivo, dovrebbe contribuire ad azzerare o quasi l’evasione record della tassa più odiata e aggirata dagli italiani. Una smentita è filtrata da Palazzo Chigi per evitare ai cittadini complicazioni e ora pare improbabile che il canone nella bolletta elettrico sia inserito nella legge di stabilità visti i tempi tecnici troppo stretti. Sarà, forse, operativa nel 2016. Ogni anno ai conti di viale Mazzini vengono a mancare centinaia di milioni d’euro, con Regioni come Campania, Calabria e  Sicilia nelle quali si arriva fino all'86 per cento di cittadini-telespettatori che non pagano quanto dovuto alla tv di Stato. Secondo i calcoli dell’esecutivo il recupero dell’evasione (estendendo l’obbligo di pagarlo non solo a chi possiede un televisore ma anche a chi utilizza pc, tablet e smartphone che hanno bisogno di elettricità per funzionare)potrebbe portare quasi al dimezzamento del canone, 60-65 euro.

Quell’obbligo peserà però ancora meno se, contemporaneamente, il contribuente potrà ottenere un servizio pubblico radiotelevisivo qualitativamente migliore dell’attuale, con una informazione più efficace e un intrattenimento meno banale. Ed è proprio questo il fronte su cui da anni più si discute: come cambiare natura e guida dell’azienda (la cosiddetta “governance”) sottraendola al controllo dei partiti. La tante volte invocata “riforma” potrebbe arrivare adesso con un amministratore delegato con più poteri decisionali e un consiglio d’amministrazione con meno funzioni e membri rispetto ai nove attuali, componenti indicati da un soggetto esterno (per garantirne l’indipendenza dalla politica) ed eletti dal Parlamento. Ma cambiare la testa non sarà forse sufficiente a ridare slancio al cavallo alato di viale Mazzini, senza rimettere in salute anche quello che un’ampia pubblicistica ha negli anni definito “il corpaccione Rai”. E il rimedio che il direttore generale Luigi Gubitosi pensa di applicare, è la più classica delle cure dimagranti. Mamma Rai deve perdere peso, e per farlo (come tante altre amministrazioni pubbliche) ha l’obbligo, peraltro da tutti condiviso in azienda, di razionalizzare le spese. Cosa tagliare è però il vero nodo da sciogliere. Mentre il governo ha imposto alla radio tv pubblica il pagamento di 150 milioni di euro (contro cui il CdA, spaccandosi, ha fatto ricorso e che ha accelerato lo sbarco di Raiway in Borsa), Gubitosi ormai prossimo alla scadenza, ha pensato di iniziare il lavoro di snellimento dall’informazione, progettando un accorpamento dei telegiornali in due megaredazioni. L’intento è quello di tagliare le poltrone dirigenziali ed evitare le duplicazioni, i troppi inviati e troupe della stessa azienda mandate a seguire l’identico evento. Ma dentro la cittadella delle news si teme che il sacrosanto intento di ridurre i costi, nasconda in realtà possibili licenziamenti di massa, e – quel che interessa di più il telespettatore che paga il canone – un impoverimento e un appiattimento dell’informazione offerta, un indebolimento del pluralismo, oltre ad un controllo ancora più efficace di tg, radiogiornali e siti, da parte di chi governa

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