Radu Lupu box – Don Pasquale & Riccardo Muti

Don Pasquale e Riccardo Muti Ravenna Festival. Teatro Alighieri. Per il suo ritorno all’opera in Italia, Muti ha scelto l’opera di Donizetti che nel ’71 ha segnato il suo debutto coi Wiener Philarmoniker. Opera buffa, agrodolce, tanto amata e rivisitata con spirito nuovo. Fresca come freschi sono i giovani dell’Orchestra Cherubini, ad ogni ascolto sempre più cresciuta, precisa sotto la guida scrupolosa del maestro (uno spettacolo vederlo dirigere dando gli attacchi a tutti, scandendo i tempi, sottolineando i colori, infiammandosi e intenerendosi), scattante e languida in un’ambientazione da work in progress dove il regista Andrea De Rosa ha voluto costruire lo spettacolo montandolo e smontandolo in scena con gran gusto del pubblico (che fra l’altro poteva finalmente sentire anche le parole…). La storia è quella solita del vecchio celibatario in fregola, del nipote amoroso che organizza col dottore un matrimonio finto dove la sposina farà impazzire e alla fine rinsavire il vecchio che darà spazio ai giovani… Ma la musica è frizzante, tenera, spiritosa: con quel velo di malinconia donizettiana che Muti fa riemergere lungo l’opera anche in punti non sospetti: potenza della finezza della concertazione. Giovane il cast, sorretto dall’esperto Claudio Desderi, cantante-attore che regala un Don Pasquale pieno di verve e di misura. Voce limpida, facile a svettare e melodiosa quella del tenore argentino Francisco Gatell, insieme al baritono toscano Mario Cassi, un dottor Malatesta sornione e di voce robusta, con la Norina di Laura Giordano. L’opera è canto, non solo dei solisti ma dell’orchestra: il merito di Muti è anche quello di aver fatto cantare all’italiana, cioè in modo chiaro colorato e melodioso, tutti: forse avvantaggiato dal fatto che i giovani sono più disponibili alla gioia del lavoro insieme più delle star acclamate. Ed è la gioia il sentimento che lascia quest’edizione, forse la novità più bella del ritorno del direttore all’opera in Italia. RADU LUPU Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Entra con passo felpato tra gli orchestrali, immerso nel suo mondo. Attacca quelle prime poche note del Concerto n. 4 di Beethoven e scatta un silenzio, raro. L’ Allegro moderato, lungo e intenso, dialoga con le dinamiche dell’orchestra: Lupu suona con lo sguardo rivolto a lei in uno scambio di attenzioni reciproche. Il direttore Fabio Luisi, sensibilissimo, accoglie ogni sfumatura: è certo che, prove a parte, si sta creando ancora qualcosa di nuovo, in questo momento. Lupu ha un tocco delicatissimo, eppure non una nota è velata, scartata, inudibile, anzi: nelle sue mani – e nella sua mente – c’è un legato dolce dei suoni fra loro, degli accordi tra lo strumento e l’orchestra. Tutto sembra naturalmente prodigioso. Il fatto è che quest’uomo barbuto e ritroso, ha maturato una concezione dell’arte dove tecnica e studio, tenaci, vengono sublimati da un ascolto interno che fa uscire protagonista la sola musica. Non c’è niente e c’è tutto di Lupu nel suo Beethoven che è anche fremiti e zampilli – il Rondò-, non solo abissali introspezioni nei primi due tempi. È il Beethoven non eroico, ma quello intimo. Luisi e l’orchestra si conducono con toni quasi commossi, perché sanno che Lupu, insieme a loro, sta donando l’anima. Un concerto come questo non si può scordare.

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