Carceri e radicalizzazione

In Italia si rischia di parlare del sistema penitenziario solo in base alle urgenze, mentre sono carenti gli investimenti. Le poche risorse potrebbero essere utilizzate meglio per il reinserimento sociale dei detenuti e la formazione di chi lavora negli Istituti di pena
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Come ha scritto a settembre 2016 il Ministro della Giustizia Orlando nell’Atto di indirizzo per il 2017 l’efficienza del sistema carcerario «passa inevitabilmente attraverso il potenziamento delle professionalità ed il miglioramento qualitativo del servizio reso dagli uffici»Poi c’è stato il referendum e la crisi di governo, anche se, il fatto che alla Giustizia sia stato confermato lo stesso ministro, può forse far sperare che quell’atto d’indirizzo sia anch’esso confermato

Il sistema dell’esecuzione penale presenta due aspetti significativi. Il primo è l’aumento delle persone ammesse alle sanzioni alternative alla detenzione: erano 26.000 nel 2011 e sono 33.827 al 31.12.2016.

Il secondo aspetto riguarda le presenze di detenuti stranieri nelle carceri italiane, sono 18.714 di 142 nazionalità diverse. Di queste le prime dieci sono: Marocco (3252), Romania (2765), Albania (2474), Tunisia (2012), Nigeria (870), Egitto (692),Senegal (466), Algeria (408), Gambia (282), Cina (260).

C’è un terzo dato, non meno importante: il personale.

Non si assumono direttori nelle carceri e negli uffici esecuzione penale esterna rispettivamente da venti e ventiquattro anni. L’ultima assunzione di educatori risale al 2009, mentre quella di assistenti sociali è datata 2007.

Come può essere efficiente questo sistema? Grandi speranze avevano suscitato gli Stati Generali dell’Esecuzione Penale (un periodo di grande riflessione e discussione che ha coinvolto tutti i soggetti coinvolti nel problema), le cui conclusioni tuttavia non sembrano andare oltre i corposi documenti redatti. Un vero peccato. Col rischio di far cadere nel dimenticatoio tutti i preziosi contributi necessari per quel profondo cambiamento che il sistema penitenziario attende da tempo.

Anche l’esame del disegno di legge delega al Governo per la riforma dell’ordinamento penitenziario, d’iniziativa governativa, approvato dalla Camera dei deputati e ora all’esame dell’aula del Senato, non sembra essere tra le priorità dell’attuale Governo.

I guai dell’ordinamento penitenziario nascono il più delle volte dalle “emergenze”. La riforma del 1975 dopo appena due anni dalla sua entrata in vigore subì una virata restrittiva con l’esclusione dai benefici penitenziari degli autori di gravi reati. Il modello configurato dal nuovo ordinamento sembrò essere troppo buonista di fronte alla recrudescenza criminale. Poi ci fu l’ondata terroristica con la creazioni delle sezioni di massima sicurezza nelle quali venivano rinchiusi i terroristi ma che ebbe un forte effetto restrittivo e condizionante per tutti i detenuti che terroristi non erano. E ancora, le nuove ondate di criminalità organizzata, senza contare, poi, i guai del sovraffollamento.

Richiamo alla memoria sommariamente questi avvenimenti per affermare innanzitutto che l’ordinamento penitenziario non può essere pensato solamente né per i “recuperabili” né per gli “irriducibili”.

Nel primo caso i duri avrebbero vita facile; nel secondo, la maggior parte dei detenuti sarebbe sottoposta a un regime eccessivamente severo.

L’ordinamento penitenziario è uno strumento complesso nel quale devono trovare posto la gestione delle molteplici realtà dell’universo penitenziario detentivo e alternativo di comunità.

Ai nostri giorni un’altra emergenza si profila: il carcere come luogo privilegiato di radicalizzazione. Come ricordato, il pericolo è reale anche per la numerosa presenza di persone detenute provenienti da aree nord e centrafricane di ispirazione culturale islamica. Queste zone sono rappresentate da otto delle prime dieci nazionalità presenti negli istituti penitenziari.

Ma la radicalizzazione, come anche il rafforzamento delle scelte criminali nelle persone detenute, risponde a dinamiche complesse e articolate alle quali occorre far fronte con interventi caratterizzati da equivalente grado di complessità. Questo presuppone innanzi tutto un profondo ripensamento del modello formativo degli operatori e la presenza all’interno delle strutture penitenziarie e di comunità, di professionalità in grado di decodificare stili di vita e culturali diversi da quelli con i quali fino ad oggi ci siamo confrontati.

continua

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