Quello che l’estate insegna ai bambini

La fine della scuola non è sinonimo di pausa degli apprendimenti: anche il tempo libero offre innumerevoli possibilità di crescita, dando ai bambini il piacere di imparare anche da amici e coetanei e aiutandoli a sviluppare altre dimensioni della propria personalità. Pubblichiamo un articolo dall'inserto educatori del giornalino Big di giugno.
Foto di Hai Nguyen Tien licenza Pixabay

(In ogni numero del giornalino Big, bambini in gamba, di Città Nuova, c’è l’inserto educatori: 4 facciate che approfondiscono, con esperti, i temi trattati nel giornalino. Questo contributo dello psicologo e psicoterapeuta Mario Iasevoli, professore incaricato presso l’Istituto universitario Sophia, è tratto dal giornalino Big di giugno).

La fine dell’anno scolastico segna l’arrivo dell’estate, momento tanto atteso dai bambini, meno forse dai genitori impegnati a fare la spola tra i nonni, i centri estivi e il loro lavoro. Si chiudono astucci e quaderni, si ripongono i libri sugli scaffali, si contano i giorni che mancano alla partenza per le vacanze. Nell’attesa, i compagni di classe che fino a ieri erano seduti nei banchi accanto a nostro figlio, da un giorno all’altro si ritrovano a correre e saltare con lui al parco vicino casa. Per questi e tanti altri motivi, la pausa dalla scuola costituisce un periodo speciale, ma sarebbe un errore considerarlo una sorta di pausa degli apprendimenti.

Non mi riferisco ai famosi libri e schede per le vacanze – di cui non parlerò in queste righe – dati in consegna dalle e dai maestri prima del “rompete le righe”. Mi riferisco piuttosto alle incredibili opportunità di apprendimento che i bambini possono cogliere e vivere nei mesi estivi, in situazioni non strutturate all’interno di una didattica, le quali, proprio perché differenti da quelle scolastiche, rappresentano uno specifico arricchimento che concorre a promuovere lo sviluppo delle diverse dimensioni della persona.

A questo proposito occorre chiarirci su cosa intendiamo per apprendimento e a cosa serve. È infatti riduttivo pensare solo all’acquisizione di conoscenze e competenze relative al leggere, a scrivere e far di conto. Apprendere vuol dire prepararsi alla vita, rispondere alle richieste di adattamento che il contesto e le varie fasi di crescita ci pongono, interpretare ciò che accade dentro e fuori di noi per cogliere maggiori opportunità, vivere con un più alto livello di benessere psicologico e relazionale.

Una caratteristica che differenzia questo tipo di apprendimento rispetto a quello più strettamente scolastico riguarda l’assenza degli standard di performance. Diventa infatti relativo il livello di apprendimento che va conseguito entro un certo range di tempo quando parliamo di saper salire su un albero, nuotare o progettare un castello di sabbia, perché l’attenzione è posta sull’esperienza che il bambino fa, che è prima di tutto emotiva e relazionale, poi anche cognitiva e fisica. Come ci suggeriscono gli studi sulla warm cognition, le nozioni si fissano con le emozioni grazie all’attività di un particolare network cerebrale.

Una seconda caratteristica riguarda il fatto che l’apprendimento si fa meno verticale, formale e mediato da un adulto (dal maestro all’alunno) e più orizzontale (tra pari) e informale (tra amici, conoscenti e parenti). Se, all’interno della classe, il piacere di apprendere viene addirittura (e giustamente) posto dagli insegnanti come obiettivo e intenzionalmente favorito attraverso specifiche dinamiche e strumenti, fuori dalla classe è elemento naturale, motivazione di base di qualsiasi attività, che appaga il bisogno innato di conoscenza di ciascun bambino conosciuto come “curiosità epistemica”.

Un’altra differenza riguarda il fatto che cambiano le forme dell’apprendimento, a partire da quelle fisiche. Non più alberi da contare disegnati sui libri, ma piante vere del parco o dell’orto dei nonni, non più palline colorate, ma biglie con cui giocare sfidando gli amici, non solo storie da leggere sul libro di racconti, ma ricette da sfogliare e preparare con i genitori o i nonni; non più esercizi di logica, ma ingegnose costruzioni di legno o di sabbia da realizzare. In questa cornice si inseriscono le cosiddette esperienze di outdoor education, più facili da realizzare con la bella stagione e che ci espongono a minori rischi legati al Covid: escursioni, gite, fattorie didattiche, semplici passeggiate guidate, per conoscere da vicino la natura o gli animali, oppure per provare a cimentarsi in sport particolari.

Un’ultima, per me importantissima, forma di apprendimento che l’estate promuove è “imparare ad annoiarsi”. Durante tutto l’anno le giornate dei bambini sono così fitte di impegni tra scuola, sport, musica, ecc… che non hanno nulla da invidiare all’agenda di un ministro. Per controbilanciare questo fenomeno, negli ultimi anni si sono diffuse, anche nelle scuole, attività di rilassamento per i più piccoli per ridurre il loro stress! Mi piace pensare all’immagine di un bambino che è in viaggio, in macchina, che non ha bisogno del tablet per intrattenersi, ma che guarda fuori dal finestrino ed è capace di inventare storie, di fantasticare con quello che gli passa davanti agli occhi, di contare quante goccioline sul finestrino vengono unite dal quel minuscolo rivolo di pioggia che scende verso il basso. Può sembrare paradossale, ma c’è bisogno di momenti di sana noia per favorire la capacità di pensare e promuovere la creatività.

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