Quelli che… non si arrendono

Mancano solo tre chilometri al traguardo. Stefania Belmondo è lì, insieme a tutte le altre grandi favorite della gara di apertura dei Giochi olimpici di Salt Lake City, a lottare per la conquista di una medaglia. Sembrano messi da parte gli ultimi due anni trascorsi senza alcuna vittoria. Sembra dimenticato il dolore ad un piede che da diverso tempo ne limita il rendimento. E anche il furto dei suoi migliori sci, avvenuto all’arrivo in terra americana, è ormai solo un brutto ricordo. Poi, improvviso, ecco l’ennesimo imprevisto. Si rompe un bastoncino. Per un momento l’atleta piemontese pensa anche di ritirarsi. Ma subito dopo ecco scattare una molla. Così cambia per tre volte il bastoncino, comincia a recuperare posizioni fino a conquistare la medaglia d’oro. Eh sì. Non ci sono state solo le ennesime squalifiche per doping e le polemiche per alcune decisioni di giurie apparse troppo favorevoli agli atleti di casa. Hanno brillato stelle come lo svizzero Ammann nel salto, o il norvegese Bjoerndalen nel biathlon. Trascorsa qualche settimana, quel che resta delle Olimpiadi sono soprattutto le storie di tanti atleti che, come la Belmondo, sono stati capaci di primeggiare dopo aver superato momenti difficili. Carole Montillet, ad esempio, ha avuto un anno veramente duro. Era la compagna di stanza della discesista francese Regine Cavagnoud, deceduta ad inizio stagione a seguito di un terribile incidente accadutogli in pista. Dopo la perdita dell’amica, Carole non è più riuscita ad ottenere risultati importanti. Spesso, nei ritiri prima delle gare, le sue compagne di squadra la trovavano chiusa in camera a piangere. “Ero veramente abbattuta – ha raccontato dopo la vittoria in discesa libera -. Non volevo più correre e neanche partecipare alle Olimpiadi. Ma poi, grazie ad alcune persone che mi sono state particolarmente vicine, ho ritrovato la voglia di sciare, ho cercato la velocità dentro il mio cuore, e dedico questo successo a Regine”. Anche per Janica Kostelic non sono mancati gli ostacoli sul cammino verso i trionfi olimpici. Nel suo paese non ci sono montagne vere, e per potersi allenare occorre lasciare la Croazia. Comincia così a viaggiare insieme al padre ed al fratello Ivica, e passa lunghe stagioni trasferendosi da una montagna all’altra d’Europa, impegnata in duri allenamenti e nelle disputa delle prime gare. I mezzi a disposizione sono pochi e per risparmiare sulle spese è costretta a dormire in macchina. I primi risultati la proiettano tra le promesse. Purtroppo, però, un bruttissimo incidente in discesa libera gli distrugge le ginocchia. Dopo le prime operazioni, i medici le dicono che c’è la probabilità di non poter più gareggiare. Janica non si abbatte, riesce a tornare in pista da protagonista, ma un nuovo grave infortunio la costringe a sottoporsi a tre ulteriori interventi chirur- gici. La ripresa è più dura del previsto, ma alla fine partecipa alle Olimpiadi e lascia gli Stati Uniti con l’incredibile bottino personale di tre medaglie d’oro ed una d’argento. L’atleta che però ha dovuto superare ostacoli apparentemente insormontabili prima di salire sul podio olimpico è stato lo statunitense Chris Klug. Nato a Denver, nel Colorado, Chris comincia a mettere gli sci ai piedi a soli due anni e a dieci scopre per la prima volta una tavola da snowboard: è amore a prima vista. Ma, proprio quando comincia a sognare un futuro da protagonista nello sport, gli viene diagnosticata una malattia rara che attacca il fegato e lo annienta lentamente. Il colpo è da ko. Ma i medici gli danno buone speranze e lo mettono in lista di attesa per il necessario trapianto. Così Chris si fa forza e continua a fare sport conquistando la partecipazione olimpica a Nagano 1998 dove ottiene un lusinghiero sesto posto. “Quando ci si sta allenando per una Olimpiade – ha confidato ai cronisti presenti ai Giochi – ad un certo punto pensi: ma sì, in fondo se non riuscirò a vincere, la vita continuerà lo stesso. Ma io dentro di me mi chiedevo, la mia vita continuerà davvero?”. Passano altri mesi ma non si riesce a trovare un solo donatore compatibile. Chris comincia a pensare che non gli rimane più molto tempo. Nell’estate del Duemila arriva però la telefonata tanto sospirata: c’è disponibile l’organo necessario al trapianto. Diciannove mesi dopo l’intervento, ecco il bronzo olimpico. Oggi l’atleta statunitense viaggia ancora con una borsa termica al seguito perché costretto a prendere tre medicine al giorno che vanno conservate a bassa temperatura. E in quella borsa, insieme ai medicinali, c’è la foto di un ragazzino sorridente. Si tratta di Billy Flood, rimasto ucciso a soli tredici anni da un colpo di pistola partito accidentalmente mentre giocava con un amico nel giardino di casa. I suoi genitori, dopo la disgrazia capitatagli, hanno deciso che il figlio doveva continuare a vivere attraverso il corpo di un’altra persona. E magari, con un poco di fortuna, poteva anche riuscire a vincere una medaglia alle Olimpiadi. E così è stato.

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