Quelle lettere dal mitico Cipangu

Circa cinquecento fra lettere e scritti inviati tra il 1574, anno del suo arrivo a Goa, e il 1606, anno della sua morte a Macao. Giunti sino a noi e rinvenuti negli archivi dei gesuiti di mezza Europa. Il prossimo 27-28 ottobre, nell’ambito delle celebrazioni del quattrocentesimo anniversario della morte di Alessandro Valignano, la Fondazione Carichieti (Cassa di risparmio della provincia di Chieti), in collaborazione con la Pontificia università gregoriana, l’Istituto storico dei gesuiti e l’Istituto giapponese di cultura, ha organizzato nella sua città natale un convegno cui parteciperanno studiosi di tutto il mondo. I suoi scritti, molti dei quali ancora inediti, saranno oggetto di un’appassionata ed attenta rilettura di un aspetto, forse trascurato, del Rinascimento italiano e della storia della chiesa del tempo. Marisa Di Russo, coordinatrice del convegno, a cui si deve, tra l’altro, il ritrovamento di una lettera del missionario al fratello, illustra con abbondanza di particolari questo personaggio del Cinquecento poco noto in Italia, e al contrario conosciuto in Giappone, dove viene menzionato nei manuali di storia per gli studenti liceali. Tra le prime di queste lettere – dice la professoressa, per vent’anni docente all’Università per stranieri di Tokyo – ve n’è una inviata dal Giappone nel 1579 al suo generale Everardo Mercuriano, terzo successore di sant’Ignazio di Loyola. Appena eletto, l’aveva inviato visitatore delle Indie, ossia suo alter ego in quelle terre lontane. La risposta gli arrivò a Goa nel 1583, quattro anni dopo, a firma del nuovo generale Claudio Acquaviva, suo carissimo compagno di studi e abruzzese come lui.Mercuriano nel frattempo era morto. Tanto impiegava infatti una lettera. Il tragitto dall’Europa all’Estremo Oriente era lungo e pericoloso. Le navi costeggiavano l’Africa sino al Capo di Buona Speranza, risalivano parallelamente alle coste sino all’isola di Madagascar, per virare a destra verso Goa attraverso l’Oceano Indiano. Da lì, ancora, riprendevano il largo sino a Macao, la città costruita dai portoghesi alle porte della Cina. Le missive – spesso lunghe decine di pagine – venivano redatte in tre copie e consegnate a tre spedizioni diverse nell’eventualità, non improbabile, che qualcuna non arrivasse a destinazione. Alessandro Valignano, l’autore delle lettere, aveva seguito la stessa rotta. Per quattro secoli la sua figura fu eclissata dal grande discepolo Matteo Ricci, che riuscì a penetrare sin nel cuore della Cina. E dal suo grande predecessore Francesco Saverio, l’apostolo dell’India. Eppure, la sua resta una figura cruciale nel processo di incontro tra civiltà europea e orientale, realizzatosi agli albori dell’epoca moderna. Se, nell’evangelizzazione di queste terre, Francesco Saverio fu il pioniere – dice la prof. Di Russo -, Valignano, succedutogli alla guida delle missioni trent’anni dopo, fu l’organizzatore sapiente ed il geniale stratega. Né ci sarebbe stato un Matteo Ricci nella Città Proibita senza un Valignano alle spalle. Proveniente da una famiglia tra le più illustri della città di Chieti, Alessandro, a 19 anni, aveva conseguito la laurea in Diritto nell’università di Padova, importante centro della cultura umanistica. Tentò a Roma la carriera ecclesiastica, contando sull’appoggio del papa Paolo IV, Gian Pietro Carafa, amico del padre. Ma un grave fatto venne ad interrompere la sua vita goliardica. A Padova, dove era tornato, fu accusato di aver sfregiato con un coltello il volto di una giovane donna. Finì in carcere dove rimase per un anno e mezzo nonostante si proclamasse innocente. I lunghi mesi passati in carcere portarono il giovane ad una revisione di vita profonda e duratura. Entrò nel nuovo ordine della Compagnia di Gesù e si impegnò a fondo nel progresso spirituale, tanto da dover essere richiamato a moderazione dai suoi confratelli per la vita ascetica che conduceva. Severo con sé, di lui si ricorda il modo di trattare cortese con chiunque. Un tratto per il quale, probabilmente, a soli 34 anni fu scelto come visitatore delle Indie, uno sconfinato territorio che comprendeva, oltre al subcontinente indiano, la Cina ed il Giappone. La nomina rimase segreta per qualche tempo, nel timore che potesse sollevare obiezioni per la sua giovane età. Ma rientrava probabilmente nel programma del nuovo generale, che voleva internazionalizzare l’Ordine e distinguere nettamente l’impulso colonizzatore avviato dai portoghesi, come di fatto stava avvenendo, dalla evangelizzazione. I 41 religiosi che lo accompagnarono se li scelse ad uno ad uno da nazioni diverse, e non solo dal Portogallo come era consuetudine. Il nuovo visitatore iniziò subito la sua straordinaria attività. Prima in India, visitando e organizzando le numerose missioni, quindi in Malacca e finalmente a Macao. Fu in quella città che lo stratega concepì e realizzò il suo piano per un’impresa che tutti, dopo numerosi tentativi, ritenevano ormai impossibile: entrare in Cina. Chiamò Michele Ruggieri, un confratello pugliese molto esperto, e più tardi Matteo Ricci, un giovane marchigiano ancora novizio. Preparò per loro un programma scritto perché, dispensati da qualsiasi altro impegno, si applicassero unicamente allo studio della lingua e della cultura cinese. Una novità assoluta! Solo anni dopo sarebbero stati pronti per entrare in terra cinese. Solo nel 1579 Valignano arrivò per la prima volta in Giappone, Paese che amò immensamente e seppe conquistarlo con il suo sottile fascino. Per più di un anno – scrisse al suo generale, per informarlo sui fatti – mi diedi da fare unicamente per penetrare i loro costumi. (…) Ciononostante trascorsi quel primo anno muto come una statua. Nel secondo anno, con l’esperienza fatta, cominciai a giudicare la situazione con maggiore chiarezza. Ed ora, al terzo anno, sono in grado di comprendere come bisogna guidare il Giappone: poiché ora ho visto e percorso tutto il Paese e ho inteso le varie opinioni. In quei tre anni di silenzio e di ascolto, Valignano comprese di trovarsi di fronte ad una civiltà millenaria; che, superando le diffidenze, occorreva aprirsi ad un interscambio di idee e di esperienze nuove; e che esisteva una via giapponese al cristianesimo, senza dover passare obbligatoriamente per le categorie culturali dell’Occidente. Purtroppo, le persecuzioni che insanguinarono per decenni la comunità cristiana impedirono che questo sogno si avverasse. Valignano tornò in Giappone a più riprese. L’ultima volta, nel 1598, appena avuta la notizia della morte dei primi 24 martiri di Nagasaki. Nel viaggio precedente, aveva sperato di scongiurare la catastrofe, facendosi ricevere dal dittatore Hideyoshi. Ma ormai era troppo tardi. Qualcuno aveva remato contro, seminando zizzania. Non disperò tuttavia. E quando tutto il lavoro fatto pareva perduto, riuscì a portare sino a Katsusa e poi a Nagasaki un torchio con caratteri mobili, per stampare libri in latino e giapponese con la translitterazione da usare nei collegi e seminari da lui fondati: libri religiosi, ma anche grammatiche, dizionari e opere di letteratura tra cui Le favole di Esopo in giapponese, la prima traduzione di un’opera letteraria occidentale, e la storia degli Heike per far conoscere ai missionari la storia del Giappone. Il Vaticano II ha fatto proprie le intuizioni di questo straordinario protagonista del Rinascimento, autentico antesignano del dialogo con le religioni e le culture. E nel quattrocentesimo anniversario della sua morte si spera che gli venga riconosciuto questo merito.

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