Ci lascia Irene Papas: quella passione per la verità

Irene Papas, leggendaria attrice greca, è morta oggi, 14 settembre, all'età di 96 anni. Ha recitato in oltre 70 film - tra cui Guns of Navarone - durante una carriera durata per decenni. Riproponiamo un'intervista del 2003 rilasciata a Città Nuova.
(AP Photo)

Con un volto ancora giovane, seppur scavato, d’intensa bellezza mediterranea, Irene Papas sembra aver ingannato il tempo. Si fa fatica a credere che abbia superato i settant’anni. Se non il tempo oggi, di sicuro ingannò all’età di 12 anni gli insegnanti della Scuola Drammatica di Atene fingendosi maggiorenne per poter essere ammessa al corso di teatro. “Mi chiedevano di portare la carta anagrafica – racconta -, ma io riuscivo sempre con delle scuse a non mostrargliela perché non scoprissero che avevo un’età inferiore. E intanto frequentavo le lezioni. Era il periodo dell’occupazione nazista, un’epoca molto difficile”.

Icona vivente della maschera greca, per Irene Papas, l’indimenticabile Penelope dell’Odissea televisiva del 1968, calarsi nei ruoli delle eroine delle tragedie classiche è del tutto naturale. Come se le conoscesse da sempre. Ricorda che da bambina nel suo villaggio osservava il pianto delle donne durante i funerali e come ridevano alle nozze: proprio tali e quali li descrivevano gli autori classici. Queste ed altre immagini hanno alimentato il sacro fuoco del teatro e la sua vis drammatica.

E l’abito rosso con cui ci accoglie nella sua casa romana sembra la manifestazione esteriore e connaturale di un temperamento forte e di una passione mai spenta. La incontriamo in un momento di riposo dopo la doppia fatica di protagonista e regista – compensata da un grande successo – in Ecuba e Le troiane. Un unico spettacolo di due ore con due cast di attori, spagnoli e italiani. Sulla grande distesa del campus universitario di Tor Vergata, complici le gigantesche scenografie di Santiago Calatrava, le parole di Euripide riecheggiavano attualissime nel proclamare l’eterna inutilità della guerra.

E Irene-Ecuba continua ad appassionarsi anche fuori dalla scena, quando le chiediamo cosa può ancora insegnare all’uomo di oggi la tragedia dei grandi autori greci. “Trovo sempre strano quando mi parlano di “classico”. Classico vuol dire quello che è sopravvissuto. Se è sopravvissuto, significa che è moderno. Dramma in greco significa “azione”, quindi vuol dire che è del presente, non può essere del passato. Credo che di più moderno, direi anche più futuro di Euripide non ci sia. Gli antichi ci costringono a pensare, a saper scegliere, a guardare la vita e a quello che succede attorno “.

È cresciuta in una famiglia da lei definita “raccontafavole”. È nata qui la sua vocazione di attrice?
“Io non ho una vocazione. Sono nata in una casa che aveva regole di pensiero più che di comportamento. Mia madre e mio padre, mia zia, mio nonno, tutti raccontavano favole cioè storie come favole, filosofia come favole. A quel tempo le nonne e le madri non sapevano leggere; sapevano, invece, raccontare. Anche Omero era raccontato. Mio padre ci leggeva tanti libri che in parte odiavamo perché eravamo piccoli, però ci formavano. Erano le “favole” di Euripide, di Sofocle, di Aristofane. Quando si è bambini si è come una spugna che assorbe. I grandi autori sono anche molto facili. Euripide, per esempio, scrive semplice e scorrevole, con tanta poesia dentro, affinché gli uomini capiscano”.

Quando ha capito allora che fare l’attrice sarebbe stato il suo mestiere?
Non c’è stato un momento ben preciso. Tutto è nato per un fatto, diciamo così, d’ingiustizia. Ho visto recitare una ragazza che frequentava una scuola di arte drammatica ad Atene. Mentre piangeva, osservavo che gesticolava in un certo modo coi capelli. E mi dicevo: ma quando uno piange non pensa mica di fare così coi capelli. Questa cosa non mi è piaciuta e allora ho detto: ti faccio vedere io come si piange. Così è nata la cosa”.

Ci parli delle Scuole e della Fondazione per le Arti Sceniche. Come è nata?
“È semplicemente nata. Prima non c’era niente. Noi non siamo architetti che fanno prima le case e poi mettono la gente dentro. Io credo che sia la necessità a creare i sogni, e non il sogno la realtà. La mia università (il Consorzio Internazionale delle Scuole che ha sede a Sagunto, Atene e Roma, e sostenuto dal contributo dei rispettivi Governi, n.d.r.) vuole trasmettere la conoscenza dei classici alle nuove generazioni. Prevede la valorizzazione e la diffusione della drammaturgia classica attraverso il metodo didattico delle “produzioni come lezioni”; gli studenti, cioè, vengono formati con l’esperienza pratica attraverso gli eventi culturali delle Scuole”.

C’è un motivo per aver scelto “Ecuba” e “Le troiane”?
“È accaduto casualmente. Abbiamo fatto l’inaugurazione a Sagunto, in Spagna, due anni fa, dentro un magazzino del porto. Era perfetto per Le troiane perché è un luogo di arrivo e di partenza delle merci. E la merce rimanda alle donne schiave che erano la merce per i greci. Poi è nata la necessità di fare l’inaugurazione della Scuola di Roma. E abbiamo pensato a Ecuba. Concluderemo la trilogia ad Atene l’anno prossimo (in occasione dei Giochi Olimpici n.d.r.) con Agamennone di Eschilo, recitata in greco”.

Dal teatro possono venire delle risposte alle domande dell’uomo d’oggi?
“Essendo greca, so che tutto è cominciato da una domanda posta dall’uomo: chi sono e perché vivo. Se dunque non usiamo il cervello e la critica e la comparazione per capire quello che succede, siamo degli zombi. La società di oggi, però, non prepara persone che sappiano collaborare. Non credo molto a chi ostenta superiorità nel parlare, rivelando invece un’incapacità di dialogare. Penso che non esista una necessità più grande del dialogo fra uomo e uomo. Tutti vogliamo vivere bene, e fare cose belle. Allora almeno la conoscenza che hai puoi donarla, trasmetterla a un altro, in modo che possa scegliere. Adesso succede il contrario, non sei libero di scegliere perché altri ti dicono: questo è più bello, questo è più caro, quel film costa più di tutti. Ciò vuol dire che non si guarda alla qualità”.

Cosa le sta più a cuore trasmettere ai giovani allievi?
“Allievi non ne avrò mai! Questi ragazzi sono persone. Ognuno è una persona che vuol sapere. È impressionante la fame che hanno adesso i ragazzi di verità. La cercano nella fede, nelle scienze. Quando vedo un ragazzo che vuol sapere, mi domando cosa posso dire io che sia bene per lui. Se gli dico quello che io so, è bene per me. Ma questa è una scorciatoia ed è come se lo uccidessi, perché ucciderei la sua creatività, la sua libertà. Occorre creargli più corsie in modo che lui possa scegliere, e costruire le sue idee, le sue scelte”.

Quindi aiutarlo soprattutto a fare chiarezza?
“Proprio così. Perché un attore deve poi essere chiaro sulla scena. O hai freddo o non ce l’hai; o piangi o non piangi; o ami o non ami. Per arrivare a questo bisogna fare un lavoro enorme. Non c’entra il talento. Talento vuol dire lavoro e sudore fino a quando i pezzi del mosaico vanno a posto. Se il pubblico non segue il personaggio e non crede che tu gli stia dicendo la verità, non ti segue. Il teatro adesso è stato spodestato dalla predominanza della televisione che tratta l’amore, le relazioni famigliari, e tante altre cose. Questo mi fa paura, perché sono falsi amori, false relazioni. È l’egoismo che ci guadagna. Nel teatro invece si parla a persone vive per dir loro cose profonde. Certo dipende anche da quello che reciti”.

Usa un metodo pedagogico con i suoi attori?
“L’unico metodo che io uso è dire la verità. Dico sempre: devi parlare con i tuoi mezzi e con la tua verità. Puoi parlare anche per un’ora e non farti capire. Quando succede, dico solo: non ti credo! Nient’altro. Non dico mai come uno deve pronunciare le parole. Non bisogna mai parlare come un’attrice ma come una persona. Io sono contenta se una ragazza trova veramente sé stessa senza finzioni”.

Ha avuto dei maestri?
“Non credo nei maestri. Credo invece che vi siano persone che hanno talento, e una fede per l’arte. Io non mi sento la fotocopia di qualcuno. Come spesso succede adesso. Io ho cercato di creare una scuola dove i ragazzi possano scoprire da soli chi sono, con l’aiuto di corsie che uno può proporre loro, senza dargli delle informazioni: di queste ne hanno moltissime a scapito della poca preparazione. Credo che la vera preparazione consista in molta ricerca”. Routine o novità.

Cosa prova ad identificarsi ogni sera con queste eroine?
“Paura, terrore, panico. La cosa peggiore è quando non mi piaccio. E succede spesso, perché so come sto. E se non funziona la mia voce, la mia anima, come posso trasmettere qualcosa? La mia responsabilità è di riuscire sempre a trasmettere qualcosa e avere un contatto con il pubblico. Non un contatto come Irene, ma come Euripide, per far passare quello che dice lui”.

Quindi si può dire che l’attore è il tramite dell’autore, del suo messaggio?
“È il dono più grande che io posso fare. Tutti noi attori siamo interpreti e non creatori. Creatore è un musicista, un poeta, uno scrittore, un pittore. Quando recito Euripide voglio trasmettere al pubblico non me stessa ma quello che vuole lui, e cioè (nelle Troiane) che la guerra produce molti mali. Tanti attori invece vengono fuori loro stessi sulla scena perché si sentono più bravi dell’autore”.

Personalmente la ricordo nello “Stabat Mater” a Napoli con la regia di De Simone. Era immedesimata nel dolore di una madre, di Maria. . .
“Ah, uno spettacolo bellissimo, un’esperienza indimenticabile. Io madre non sono stata, però da mia madre ho imparato molte cose. Credo che un attore non abbia problemi in questo senso perché il corpo sa il dolore e la gioia. È una banca dati di tanti stati d’animo, di palpiti e di terrore, di cose belle, e prende da esso cose che ti somigliano. Ma non lo fai coscientemente”.

Può il teatro aiutare a migliorare l’uomo?
“Se non fosse così Euripide non avrebbe scritto, né io farei l’attrice. Credo che ci sia sempre una speranza dentro le persone, nella gente che fa teatro, che lo scrive, che lo vede: vogliono capirsi l’uno con l’altro, per arricchirsi”.

Quale segno vorrebbe lasciare nel teatro?
“Non m’importa. Io so che si lascerà da solo. Non m’interessa né avere il mio nome, né che rimangano le mie memorie, né niente. Sulla mia tomba voglio che si canti e si balli. La vita è molto breve e noi siamo piccoli come formiche. Mi piacerebbe vivere per sempre, ma non è possibile. Non cerco falsi aiuti. Magari potessi parlare con Dio!?”.

Cosa gli direbbe?
“Di essere più vicina a lui. Non posso pretendere di non avere dubbi, ma gli chiederei di avere anche la fede. Credo che ogni uomo e ogni donna abbiano un pezzettino di Dio. L’arte ha dato tantissimo al volto della fede e mi piacerebbe che chi rappresenta in questo momento nel mondo Dio – come il papa, un patriarca, un rabbino – dicesse anche “grazie” all’arte, riconoscendo gli artisti come “sponsor” della fede. La bellezza avvicina a Dio”.

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