Quel “perdere” che dona la vita

Figlio unico e individualista, non ero molto abituato a prendere in considerazione la possibilità di non aver ragione. Parlavo poco, ma se era necessario conversare preferivo parlare piuttosto che ascoltare. Molto impegnato negli studi di medicina, non ero abituato né preparato a servire concretamente nelle cose di casa. Da noi le aveva fatte sempre la mamma. Va da sé che, con queste premesse, quando cominciai a vivere in comunità, la vita del focolare mi risultasse non solo attraente, ma anche esigente. Aveva soprattutto un timbro delicato, mentre il mio carattere di delicato aveva ben poco. La strada che mi si apriva davanti era quella dei piccoli passi di servizio e di ascolto, ripetuti quotidianamente, diretti ad accogliere gli altri così come sono. Cominciai così a scoprire in loro veri tesori, che nello scambio reciproco divenivano anche mio patrimonio. Col tempo capivo sempre meglio che la via del vangelo comporta un saper perdere, per amore. Ma non mi sarei mai immaginato che misura avrebbe avuto questo perdere. Lo sperimentai quando, diventato medico, accettai di trasferirmi nella Germania orientale per contribuire ad aiutare la chiesa e a sviluppare il movimento al di là della cortina di ferro. Bisognava lasciare i genitori, la mia bella città, l’Italia, la lingua e la cultura natia e trasferirsi là dove di noto c’era solo il pericolo di andare in prigione. Per di più comportava la rinuncia a diventare cardiologo, in quanto nella allora Repubblica democratica tedesca (Ddr) erano necessari anestesisti: specializzazione che cominciai senza immaginarmi che questo sarebbe stato un ulteriore strumento nelle mani di Dio per lavorare sul mio carattere. Nel mondo della medicina l’anestesista è una figura particolare. Mentre in primo piano è sempre chi opera, lui fa da sfondo; e questo non mi piaceva. Finché un giorno mi venne da paragonare questo ruolo a quello della Madonna. Dio ci lavora, esegue su di noi le operazioni necessarie per il nostro bene e Maria ci aiuta a sopravvivere. Da allora cominciai ad amare molto questo lavoro, via ad una profonda esperienza di Dio, del suo amore, della sua Provvidenza. Nella Ddr ogni movimento era proibito. Come focolarini eravamo quindi illegali. Questa situazione poteva far paura e bloccare. Anche qui ci aiutò capire che quel che contava era vivere servendo Gesù in ogni persona, non importa se credente o del Partito, così come eravamo capaci. Dopo la caduta del regime, negli atti della Stasi (i servizi segreti) vennero trovati documenti in cui si parlava di noi. Eravamo stati osservati molto attentamente. Sapevano chi eravamo, come vivevamo, perché ci eravamo trasferiti lì. Ma erano arrivati alla conclusione che il nostro servizio e il nostro atteggiamento positivo nei confronti della gente erano più importanti delle differenze ideologiche. Arrivò il momento di un nuovo distacco. Il movimento nascente in Polonia aveva bisogno di aiuto e nella ricerca di qualcuno che potesse trasferirsi in quella nazione si pensò a me. Avevo collaborato per quindici anni a costruire la comunità dei Focolari nella Ddr. Lì avevo sperimentato la luce e la gioia che scaturiscono dalla presenza di Gesù fra fratelli e sorelle uniti nel suo nome. Mi sentivo ormai a casa. Ora ero invitato a lasciare tutto e a rimettermi in gioco in una situazione completamente nuova. Non senza emozione passai il confine fra la Ddr e la Polonia a Gorlitz. Ma ebbi la sensazione che qualcuno delicatamente mi suggerisse un pensiero: Non aver paura. Qui sei a casa mia. Arrivavo con una borsa di studio per un anno. In questo tempo avrei dovuto cercare il modo di rimanere; ma come farlo, dato che per lavorare era necessario il permesso di soggiorno permanente, e questo per motivi di lavoro non veniva dato? Già al primo incontro, il capo della polizia di Breslavia disse che gli sarebbe cresciuto più facilmente un cactus sul palmo della mano che io ricevessi tale permesso. Mi recai perciò in pellegrinaggio a Czestochowa, dove affidai il problema a Maria. Per raccontare le iniziative prese e le peripezie passate durante quell’anno per cercare di ottenerlo ci vorrebbe un libro. Proprio quando la borsa di studio stava per finire, fui invitato a Varsavia a parlare col capo dell’Ufficio centrale passaporti. Mi resi conto che quel colloquio sarebbe stato decisivo. Nell’autobus, sulla strada verso quell’ufficio, di nuovo quel pensiero delicato: Vai per quel documento o per Gesù? Ricorda che lo incontrerai nel capo dell’Ufficio passaporti per la prima e forse ultima volta. Che strana mi sembrava in quel momento quell’idea! Tanto più che per amarlo avrei dovuto essere libero, libero anche dal desiderio di restare in Polonia. Il capo di quell’ufficio era un uomo anziano. D’aspetto ricordava un po’ mio padre. Come volergli bene? Di nuovo quel delicato pensiero: Vedi, lui ha un problema. Vuol capire perché vuoi restare in Polonia. Perché non lo aiuti?. Forse lei si chiede perché desidero restare in Polonia?. Proprio così. Se vuole, le posso raccontare qualcosa della mia storia…. L’ascolto volentieri. Cominciai a spiegare come, avendo scelto di studiare medicina per motivi umanitari, ero venuto a sapere di un amico di famiglia che lavorava nella Germania dell’est, dove negli ospedali cattolici mancavano medici. Ero andato a lavorare con lui ed insieme avevamo costruito un moderno reparto di anestesia e terapia intensiva. Dopo 15 anni di quel lavoro, de- siderando fare una nuova esperienza, avevo trovato in Polonia un reparto di microchirurgia dei reimpianti delle mani che nella Ddr non c’era: per tale motivo quella borsa di studio. Durante quell’anno di soggiorno avevo conosciuto un po’ la storia travagliata della Polonia ed ora desideravo mettere al servizio della salute di questo popolo alcuni anni della mia vita professionale. Non dovetti continuare il discorso. Mano alla cornetta del telefono interno, il capo disse all’impiegato d’ufficio: La pratica del dott. Saltini deve essere accelerata. Lo guardai con sul volto un grande un punto interrogativo: Cosa significa? Che posso rimanere o che devo lasciare la Polonia più alla svelta?. Mi guardò sorridendo: Fra due settimane si presenti all’Ufficio passaporti di Breslavia per ritirare il permesso di soggiorno permanente. Poi ci stringemmo cordialmente la mano e ci lasciammo. Non è facile descrivere la gioia che sentii in cuore. Non soltanto a motivo dell’ottenuto permesso, ma perché avevo assistito al nascere in quell’uomo di una risposta d’amore. Due settimane più tardi l’impiegata dell’Ufficio passaporti di Breslavia non sapeva ancora niente del mio permesso di soggiorno, ma mi assicurò che se ne sarebbe interessata. Quando dopo altre due settimane mi invitò ad andarlo a ritirare, le chiesi il motivo del ritardo. Mi disse allora, che il suo capo, quello del cactus, aveva nascosto i documenti nella cassetta della sua scrivania. Forse aveva avuto paura che il cactus gli crescesse davvero! Ma lei li aveva trovati. Era la mattina del 13 maggio 1981, festa della Madonna di Fatima. Non ci fu il tempo di gioire a lungo perché quello stesso giorno ci fu l’attentato al papa. Da allora sono passati più di vent’anni; anni intensi, costellati di gioie e di momenti duri, dove nello sviluppo dei Focolari in Polonia è difficile non riconoscere il tocco delicato di Maria, la sua regia.

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