Quel cielo sopra di me

Conoscere l'universo, conoscere l'uomo. A colloquio con Paolo Conconi, astronomo costruttore di telescopi.
Paolo Conconi

«La prima volta in cui ho osservato con un potente telescopio un ammasso globulare, ossia un insieme di stelle localizzato in una zona ben definita di cielo, ho provato un’intensa emozione: pur nella mia piccolezza, ero una parte dell’universo. Pensare poi che quelle stelle (circa un milione) erano state in gran parte studiate da scienziati che erano stati in grado di stabilire, per ciascuna, le caratteristiche principali, mi dava un senso di vertigine, era affascinante».

Questa attitudine contemplativa Paolo Conconi, che incontro a Milano, l’ha coltivata come astronomo. Originario di Ronago, un paesino tra Como e Varese, dove è nato nel 1948, Paolo ha due figli adottivi e vari nipoti.

 

Dove hai svolto la tua attività?

«Presso l’Osservatorio astronomico di Brera, un istituto di fama mondiale e la più antica istituzione scientifica di Milano, e precisamente presso la sede di Merate, in Brianza. Ho lavorato lì per una trentina di anni. Dopo l’entrata dell’Italia nell’Eso (Osservatorio europeo del Sud), nella metà degli anni Ottanta mi sono occupato di strumentazione e costruzione di telescopi, lavorando per molti anni al progetto del Telescopio nazionale italiano Galileo, alle Canarie. In seguito, fino a quando sono andato in pensione nel 2007, ho lavorato soprattutto alla progettazione della parte ottica dei telescopi, da quelli infrarossi a quelli per raggi X. Abbiamo ottenuto immagini di oggetti la cui luce era partita da questi “solo” 600 milioni di anni dopo il Big Bang iniziale, che si suppone sia avvenuto tra i 13 e i 15 miliardi di anni fa».

 

E attualmente?

«Continuo a collaborare ad alcuni progetti della Nasa e dell’Agenzia spaziale europea (Esa), riguardanti la strumentazione: si tratta di progettare strumenti per studiare sorgenti di raggi X molto lontane, ai confini dell’universo osservabile».

 

E poi ci sono le pubblicazioni scientifiche…

«Beh, è un filone molto particolare: si tratta di articoli estremamente specialistici, indirizzati – e dico tanto – a cento persone nel mondo che andranno a leggerli. Questo però ti fa in qualche modo partecipare del “pensiero” di coloro che hanno studiato gli stessi argomenti prima di te e nello stesso tempo anche a quello di quanti in futuro utilizzeranno questi tuoi lavori».

 

Osservare il cielo. Cos’è che ti ha attirato in questo che è stato il lavoro della tua vita?

«Sempre ho provato un’attrazione per ciò che è infinito, grande o piccolo che sia, per me coincidente col bello. Sentirmi portato fuori dal mio io angusto è stato il motivo per cui mi sono innamorato dei luoghi deserti (gli osservatori in genere sono situati in cima a una montagna e possibilmente in posti dove non piove mai, come può essere un deserto), luoghi dove, trovandoti con poche persone attorno, sei essenzialmente solo con te stesso e puoi più facilmente approfondire il tuo rapporto con l’Assoluto».

 

Una situazione un po’ simile a quella dei trappisti…

«Comunque, se dovessi scegliere tra vivere nel deserto o in mezzo alla gente, non avrei dubbi: sceglierei la seconda opzione. Infatti mi porta fuori di me molto di più il rapporto con il prossimo che non l’intero universo».

 

Immagino che collaborare con scienziati di nazionalità diverse faciliti l’affiatamento anche tra chi appartiene ad altre culture, talvolta anche a Paesi non sempre in concordia tra loro…

«Queste diversità hanno un peso relativo quando si fa un’attività scientifica comune. Potrà esserci qualche differenza nella metodologia per arrivare a un risultato o per pensare un progetto; diverso è senz’altro l’approccio tra una mentalità anglosassone e una latina. Però sui dati, sulle analisi, sui risultati che si possono ottenere difficilmente c’è contraddittorio, più spesso c’è coincidenza».

 

Ci saranno difficoltà da superare, ma anche soddisfazioni in questo lavoro in équipe…

«Per farti un esempio, la Nasa aveva realizzato un satellite per osservare oggetti ad alte energie con a bordo un telescopio per raggi X, realizzato dall’Osservatorio di Brera con la collaborazione dell’Esa e dell’Agenzia spaziale americana. Asservito a questo satellite, un’altra équipe, a cui partecipavo attivamente, aveva intanto costruito un piccolo telescopio robotico, motivo di collaborazione con un collega russo che aveva installato a bordo uno stranissimo telescopio a grande campo. Lo scopo era riprendere immagini di una vasta zona di cielo con una risoluzione temporale molto elevata, dell’ordine di qualche decimo di secondo soltanto. E questo ha permesso di osservare nel 2008 una Grb, una di queste sorgenti così intense e lontane, proprio mentre avveniva il suo lampo: infatti nel momento in cui era registrato dal satellite in orbita, il telescopio a terra stava osservando una zona di cielo molto vicina, sicché la strumentazione russa ha potuto cogliere questo lampo gamma fin dai primi istanti. Il telescopio robotico ha iniziato ad osservare lo stesso oggetto dopo qualche secondo e per la prima volta un fenomeno di questo tipo è stato studiato fin dall’inizio dai raggi gamma all’infrarosso. Questa convergenza di più elementi, che da soli avrebbero fornito solo dati parziali, ha permesso di ottenere dei risultati estremamente interessanti per la fisica». 

 

Che apporto ha dato alla tua professione l’adesione allo spirito dei Focolari?

«Vivere una certa spiritualità immette una sensibilità diversa, cambia l’approccio non solo al problema scientifico, ma sicuramente al modo di rapportarsi con gli altri. Quello della fisica e dell’astronomia è un mondo estremamente competitivo. Sai, le ricerche procedono solo se si hanno dei fondi, e se va avanti una ricerca di altri, la tua rimane indietro. Per cui i contrasti sono all’ordine del giorno. Io però sono sempre andato d’accordo con tutti, ricevendo amicizia e stima: forse non spetterebbe a me dirlo, ma di fatto è stato così. C’è un altro aspetto. Tanti miei colleghi, una volta cessata l’attività di ricerca alla quale avevano dedicato tutta la loro vita come alla cosa più importante, sembrano non avere più uno scopo ed hanno una insoddisfazione di fondo. A me questo non è capitato, e l’attribuisco al fatto di aver sempre cercato di mettere Dio al primo posto».

 

Nel contatto con i più giovani (penso agli studenti in visita all’Osservatorio dove lavoravi) quali erano le reazioni e le domande?

«I bambini più piccoli rimangono affascinati anche solo vedendo l’edificio e il posto, e sentendo parlare di pianeti e distanze incredibili. Ma questo fascino lo vanno perdendo crescendo, e nella fase adolescenziale possono essere attratti da altre cose. L’interesse per la scienza si riaccende spesso nel periodo universitario. Ma le domande più interessanti vengono sempre dai più piccoli, che essendo ancora nella fase dei perché provano stupore, meraviglia di fronte al creato. Una domanda molto frequente riguardava l’utilità pratica: “A che serve quello che fate?”. In genere, rispondevo a mia volta con una domanda: “Che utilità ha la Sesta Sinfonia di Beethoven? Quella musica suscita delle emozioni, in qualche modo interagisce con te. Lo stesso vale per il mondo attorno: fa parte di te, ti appartiene, quindi studiare l’universo in cui vivi aumenta la conoscenza che hai di te stesso e dell’uomo in generale”».

 

Quali le soddisfazioni avute?

«Aver contribuito a realizzare della strumentazione che ha permesso di ottenere certi risultati e di osservare cose che non si erano ancora viste».

a cura di Oreste Paliotti

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