Quei ragazzi mandati a sparare

Era la primavera del 1944, il penultimo anno di guerra. Mentre il fronte dei combattimenti risaliva lo Stivale molto lentamente, si viveva non senza disagio la schizofrenia del ribaltamento delle alleanze, si apprestavano affannosamente rifugi antiaerei, e i viveri scarseggiavano ogni giorno di più. Noi bambini avevamo smesso di giocare alla guerra con armi immaginarie, e di gridare bang bang per significare che avevamo sparato. Non avevamo ancora dieci anni, ma avevamo capito che la guerra non era un gioco. Non più. Alcuni di noi avevano fratelli di qualche anno più grandi, e un giorno seppi che Franco, il fratello quindicenne di un mio coetaneo, non era tornato da scuola. Un professore del liceo, ci disse piangendo sua mamma, aveva infiammato a tal punto l’intera classe con i suoi discorsi, che si erano arruolati tutti nell’esercito della Repubblica di Salò. A guerra finita pochi di loro fecero ritorno. Di Franco non sapemmo più nulla. La guerra vera, che dilagò ben presto con tutti i suoi orrori anche di mezzo alle nostre case, era ben altra cosa delle nostre finzioni. Ci risparmiò la vita, ma l’età della spensieratezza era finita per sempre. Non aveva ancora un filo di barba, Franco, quando gli misero addosso quella divisa e a tracolla un moschetto più pesante di lui e gli insegnarono a sparare. Ieri mi è sembrato di riconoscerlo nei tratti spauriti di un ragazzo di Trebisonda, Ouzhan, pure lui imberbe, nelle cui mani avevano messo una pistola insegnandogli ad usarla. Gridando Allah Akhbar! aveva freddato un sacerdote cattolico in preghiera nella sua chiesa. Ho provato una stretta, quasi risentissi i singhiozzi della mamma di Franco. Altre due mamme stavano piangendo: a Roma quella di don Andrea, a Trebisonda quella di Ouzhan, che ancora si domanda perché qualcuno abbia dato via Internet quell’ordine al suo ragazzo. La mamma novantenne del sacerdote ha già perdonato. Perdono con tutto il cuore la persona che si è armata per uccidere mio figlio e provo una grande pena per lui, essendo anche lui un figlio dell’unico Dio che è amore. Da quando ho sentito quelle parole di perdono – risponde da Trebisonda il padre del giovane omicida – ho un solo desiderio nell’anima: vorrei raccogliere abbastanza soldi per venire in Italia e baciare le mani di quella donna in segno di gratitudine. Fatele sapere che mi ha commosso e che vorrei abbracciarla. Bacerò le sue mani, fosse l’ultima azione della mia vita. Ai giornalisti che hanno raccolto questo suo desiderio, spiega che il figlio è psichicamente disturbato e che da qualche tempo, da quando frequentava l’Internet Café Aktif, aveva cambiato atteggiamento e non pregava più. C’è chi semina odio, lo sappiamo. E chi soffia sul fuoco, anche sconsideratamente, come i vignettisti che hanno offerto l’esca. E c’è chi ripara i guasti con l’amore. Non per nulla all’indomani di questi fatti il governo turco ha sciolto le riserve sul viaggio del papa in Turchia. Solo l’amore può trasformare un fossato che divide in un legame che unisce.

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