Quei figli della guerra

Se è vero che spesso un’opera teatrale esprime la situazione sociale e le condizioni morali del momento storico in cui viene scritta, bisogna dire che da cinquant’anni a questa parte molte cose non sono cambiate in tema di mani sporche. Attualissimo risulta, in quest’ottica, Erano tutti miei figli, opera che nel 1947 decretò il successo di Arthur Miller. Nel testo dello scrittore americano pesano, come in Ibsen, gli spettri delle colpe di un passato rimosso. E c’è uno scontro di valori, nel conflitto generazionale tra padri e figli, dove, come nei greci, le colpe degli uni ricadono sugli altri. Siamo nel periodo postbellico, e si fa largo l’utopia del “sogno americano”. Ma all’interno di un nucleo familiare dall’apparente serenità domestica si respira una cinica atmosfera di omertà, un mondo di malesseri celati e di ipocrisie. Indagando sui retroscena della guerra, Miller puntava l’indice contro i traffici d’armi, la bramosia di profitto anche a costo di sacrificare vite umane. Come quelle di ventuno giovani aviatori precipitati a causa di materiali per l’aviazione difettosi venduti dalla fabbrica di Joe Keller, il cui figlio Larry non tornò più dalla guerra. A pagare con la prigione e l’ignominia sarà soltanto il socio, mentre il discusso industriale verrà assolto. Ma la verità verrà a galla drammaticamente. Esploderà assieme a rancori e passioni, quando, dopo tre anni, farà ritorno Ann, figlia del socio in carcere, e già fidanzata dello scomparso Larry. Il fratello di questi, Chris, vorrebbe sposarla. Ma ad opporsi è mamma Kate, che si ostina a credere al ritorno del suo Larry. Pateticamente chiusa, solo in apparenza, nei recinti della follia, in realtà ella è depositaria di una cruda verità che rifiuta anche a sé stessa. Non la sveliamo. Per invitare a non perdere la toccante edizione di questo classico ora allestito da Cesare Lievi. Optando per un naturalismo e una recitazione di taglio cinematografico, Lievi vira verso una chiave epica, fortemente evocativa. Al posto del giardino, su tutta la scena – firmata da Maurizio Balò – è disteso un telo militare: simile a un sudario, sembra coprire i misfatti degli uomini, nascondendo e poi svelando progressivamente un cimitero di enormi carcasse d’aerei. Lo spettacolo poggia soprattutto su un duo d’eccezione: Umberto Orsini, che disegna un ruvido e cinicamente fiero industrialotto, e Giulia Lazzarini, una madre e moglie di trepida umanità. Sono loro (insieme ai non meno bravi Luca Lazzareschi ed Ester Galazzi) a generare la palpabile e tesa commozione che attraversa il pubblico. Conducendoci a quel finale catartico dove si può guardare al futuro con più fiducia. La la human steps Nato a Casablanca, ma vissuto a Montréal, il coreografo Edouard Lock sarebbe piaciuto ai Futuristi. Per quel senso della velocità che anima le sue creazioni. In Amelia, presentato al Romaeuropa Festival, i danzatori della compagnia canadese La La La Human Steps – da lui fondata nel 1980 – sferzano braccia e punte come saette. Eseguono vertiginosi passi a due, terzetti, quartetti e assoli, costruiti in montaggi velocissimi lungo traiettorie determinate da coni di luci. Una coreografia complessa che scorre sui corpi come una scarica elettrica al suono Agenda Napoli. Nur Du di Pina Bausch, Teatro San Carlo, dal 21 al 24/11. La grande coreografa tedesca, col suo multirazziale Tanztheater Wuppertal, ci racconta Los Angeles, ennesimo omaggio alle città del mondo: un montaggio di sequenze che rimandano al musical, all’aerobica, alle telenovelas. Ma anche a Hollywood, al jazz, al mondo latinoamericano. ROMA. Confessione di Tolstoj, con Franco Di Francescantonio, regìa Riccardo Sottili. Metateatrocasadelleculture, dal 19/11 al 15/12. Una straordinaria interpretazione di Di Francescantonio, impegnato a dar voce alla tormentata lotta tra “cuore” e “ragione” espressa da Tolstoj nel suo diario quando, ancora 19enne, annotava: “Qual è il fine della vita dell’uomo? “. Spettacolo premiato in Spagna e Russia. Da vedere e rivedere.

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