Quando si spegne una stella

Era il 1947 quando Marlon Brando comparve sulla scena per la prima volta. Recitava in teatro la parte di Kowalski in Un tram chiamato desiderio di Tennessee William. La sua interpretazione rabbiosa e inquieta, l’incontenibile espressività, la carica adrenalinica che sprigionava furono un vero e proprio schiaffo al manierismo sofisticato della recitazione dell’epoca. Furono i prodromi di un’ascesa incontenibile che segnarono l’immaginario di un epoca e di più di una generazione. Nel 1951, con il maccartismo in piena ascesa, uscì nelle sale Un tram chiamato desiderio, con Elia Kazan alla regia e Marlon Brando che tornava a interpretare, dopo gli esordi teatrali, il ruolo dell’untuoso polacco, ottenendo un successo travolgente. A distanza di quattro anni il passaggio dal teatro al cinema consentì a Brando di mostrare al mondo tutte le sue capacità e fu subito chiaro che lui, in qualche modo, era il migliore. Con la rabbia e la sua voglia di lottare fu l’apripista della nuova generazione di attori ribelli che si sarebbe presto affermata a Hollywood. Fu nel 1954, con Il selvaggio e Fronte del porto, che il mito di Brando ebbe la definitiva consacrazione. Grazie anche alla sterminata iconografia di cui beneficiarono i due film, l’attore divenne il ribelle per eccellenza, il simbolo della rivolta giovanile, l’incarnazione dei desideri di libertà dei giovani americani. Ma anche se il suo successo si basava, in parte, sull’essere diventato l’icona perfetta della gioventù bruciata di quegli anni, Brando fu soprattutto un attore immenso, che riusciva a calarsi nei suoi personaggi fino a farli diventare altri sé. Fu l’antesignano di una serie di interpreti eccezionali – da Robert De Niro a Dustin Hoffman – che come lui furono fautori del metodo Staniswalsky appreso all’Actor’s Studio e che in qualche modo ne seguirono le orme. Insomma, a trentatré anni Marlon Brando era già una stella di prima grandezza e proseguì la sua carriera conteso dai migliori registi che erano disposti a sopportare le sue proverbiali sregolatezze pur di disporre del suo sorprendente genio. Momenti importanti della sua carriera lo videro diretto da registi italiani, prima Gillo Pontecorvo in Queimada e poi Bernardo Bertolucci ne L’ultimo tango a Parigi, ma la vera rinascita artistica avvenne quando Francis Ford Coppola lo volle per la parte di don Vito Corleone ne Il padrino. Brando creò il personaggio in ogni dettaglio, dal trucco, imbottendosi le guance di ovatta, alla dizione, rafforzando il suo naturale falsetto e creando una parlata che avrebbe fatto epoca. Per questa interpretazione vinse il suo secondo Oscar che, in segno di sostegno alla causa dei nativi americani, si rifiutò di ritirare facendosi sostituire da una giovane indiana. L’ultima fiammata artistica la dobbiamo ancora a Coppola, che ne passò di tutti i colori durante le riprese di Apocalipse Now! per contenere le intemperanze di un Brando grasso e irascibile, sempre sull’orlo di mandare all’aria la produzione, ma in grado di dare vita, in uno splendido e inquietante chiaroscuro, a uno straordinario colonnello Kurtz. Se prima del declino vero e proprio c’è la decadenza, questo è il periodo della decadenza. Marlon Brando è un uomo sempre più solo, prigioniero di sé stesso e di un mito che non gli appartiene più. La sua vita sentimentale è un fallimento totale e i suoi immensi guadagni svaniscono per pagare gli alimenti alle ex mogli e sostenere una pletora di figli, per lo più illegittimi. Ma il declino vero e proprio comincia con le tragedie familiari che lo colpiscono senza tregua: il figlio preferito viene condannato per l’omicidio dell’amante della sorellastra Cheyenne, la quale si suicida qualche tempo dopo. Le spese giudiziarie per la difesa lo mettono definitivamente sul lastrico, e per tirare avanti colleziona un serie di sconcertanti (ma in genere remuneratissimi) camei in mediocri film commerciali. È chiaro che il mito è finito, la stella si è spenta e l’uomo è stato dimenticato. Brando è morto ai primi di luglio per insufficienza polmonare dopo aver vissuto gli ultimi tempi in condizioni misere e abbandonato quasi da tutti. I quotidiani e i siti Internet, nel commemorare l’attore americano, hanno scelto quasi sempre le immagini in bianco e nero di Brando da giovane, consacrando in quelle immagini un’icona del nostro tempo. Forse il Brando più grande fu proprio quello, quando in canottiera, in giubbotto di pelle o nei panni di uno scaricatore riuscì a mostrare all’America i suoi lati più nascosti e oscuri.

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