Quando il Po incontra il Don

Il fiume ha una sorgente, un corso e uno sbocco, il mare, come la vita: parole di Ermanno Olmi, che sulle rive del Po è tornato a girare, dopo averci dato nel ’92 lo splendido e lirico Lungo il fiume. Il suo prossimo film dal titolo provvisorio Cento chiodi è la vicenda di un professore universitario che dopo aver rinnegato i libri che l’hanno inaridito va a ritrovare sé stesso in un casale nei dintorni del nostro maggior corso d’acqua. Il fiume come metafora del fluire della vita ha sempre avuto fortuna, anche in ambito letterario. Le sue correnti che, ora tranquille e maestose ora in tumulto per le rovinose piene, accompagnano il susseguirsi delle generazioni nei territori da esse fecondate non sembrano forse lo scenario ideale per lo svolgersi di piccole e grandi storie? Non mancano di ciò esempi notevoli contemporanei. E per rimanere là dove ci ha condotto Olmi, citiamo quel Mulino del Po che Riccardo Bacchelli scrisse tra il 1938 e il 1940, tradotto poi in film da Alberto Lattuada e in versione televisiva da Sandro Bolchi. Quel Po che oggi desta tante preoccupazioni a causa di una magra record, coincisa con la ricostruzione, voluta a Ro, del San Michele, il mulino che aveva ispirato la saga contadina dello scrittore bolognese. Com’è noto, il racconto abbraccia le vicende di una famiglia di mugnai fluviali ferraresi lungo l’arco di un secolo di storia italiana, dal 1812 al 1918. Da Bacchelli e dai mase affascinato con qualche ritrosia (o antipatia?) Indro Montanelli, che riconosceva in lui un Manzoni, ma senza la pietà, ch’era il meglio di Manzoni. Questa epopea di umili molinari, densa di poesia, inizia in Russia, dove il capostipite Lazzaro Scacerni scampa alla morte durante la tragica ritirata dell’esercito napoleonico. E proprio in Russia ha origine un’altra saga di ampio respiro per la quale Michail Aleksandrovic Sciolochov ha chiamato in causa il fiume Don: ne è protagonista, anche qui, gente che trae il proprio sostentamento dalla terra, gente alle prese con le grandi idee di libertà, uguaglianza, giustizia. Scritto in un arco di tempo molto più ampio del capolavoro di Bacchelli ma ad esso contemporaneo (1928-1940), Il placido Don inizia, si può dire, là dove quello termina: celebra infatti – attraverso le peripezie di Grigorij Melechov, ufficiale cosacco dell’esercito zarista, dapprima dalla parte dei bianchi e poi sempre più vicino ai rossi – il dramma dei cosacchi durante la guerra civile seguita alla rivoluzione bolscevica del 1917. Sciolochov stesso, di cui ricorre quest’anno il centenario della nascita, era originario di Kruzilino, regione del Don. Per questa opera corale, caratterizzata da potenza espressiva e dall’esaltazione degli uomini come eroi, lo scrittore ottenne il premio Nobel nel 1965. Sciolochov venne acclamato quasi come un novello Tolstoj, al cui realismo psicologico s’era indubbiamente ispirato (come dal canto suo aveva fatto anche Bacchelli). Non mancano, tuttavia, voci dubbiose circa la vera paternità del ciclo romanzesco; dubbi che le celebrazioni del centenario hanno riportato alla ribalta. Riesce difficile infatti immaginare che uno scrittore giovane e ancora inesperto (aveva pubblicato il primo volume ad appena 23 anni) sia stato in grado di comporre un’opera di tale profondità. Come pure che un autore decisamente allineato quale Sciolochov fu nella maturità abbia saputo rendere così egregiamente la visuale dei cosacchi separatisti e antisovietici. E come mai i quattro volumi del Placido Don sono così qualitativamente superiori a tutto il resto della sua vasta produzione? Già a suo tempo Aleksandr Solz?enicyn aveva fornito la propria verità: Sciolochov, al suo dire, avrebbe utilizzato come base il romanzo incompiuto di un certo Fëdor Kriukov, un cosacco antibolscevico morto di tifo nel 1920 a 50 anni. A fornirgli il testo sarebbe stato il suo stesso suocero, che a suo tempo, in qualità di medico, assistette Kriukov. Del resto, alcuni critici hanno confermato di recente l’esistenza, nel racconto, di due lessici, stili ed estetiche di carattere diverso. È un mistero sepolto con Sciolochov, morto nel 1984 nella sua villa sulle rive di quel suo fiume, il Don, che continua a scorrere incurante di certe polemiche.

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