Quando era re Ladislao

Arte e storia in un gioiello poco noto della Napoli angioina: la chiesa di San Giovanni a Carbonara, dove monumenti funebri e arredi scultorei segnano il trapasso tra il tardo-gotico e il Rinascimento

Una vicenda a lieto fine, quando tutto ormai sembrava dimenticato: nel dicembre 2016, 40 anni dopo il suo trafugamento nel 1977, veniva rintracciata a Bruxelles dai carabinieri del “Nucleo tutela patrimonio artistico” una raffinata scultura cinquecentesca di Girolamo Santacroce raffigurante San Giovanni Battista; sottratta alla monumentale chiesa napoletana di San Giovanni a Carbonara, finalmente vi ha fatto ritorno dopo due anni di restauri. L’occasione di ammirare la statua che nel 1550 entusiasmò Giorgio Vasari, autore di dipinti presenti in questa stessa chiesa situata in una zona marginale del centro storico, e pertanto meno frequentata dai flussi turistici, era troppo invitante per non rivisitare uno scrigno d’arte e di storia che attende ancora di essere valorizzato come merita.

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La chiesa con l’annesso convento dei frati agostiniani, che all’epoca della sua costruzione (metà del 1300) sorgeva in cima a un poggio al di fuori delle mura, solo con l’avvento degli aragonesi (1489) venne inglobata nella nuova cinta muraria, non lontano dall’attuale Porta Capuana. Ma già da tempo la primitiva fabbrica povera e angusta era stata rifatta in forme più grandiose dal re di Napoli Ladislao Angiò-Durazzo. Completata dopo la sua morte dalla sorella Giovanna II, detta anche “Giovanna la pazza”, divenne il pantheon degli ultimi angioini, sempre ampliata e rimaneggiata nel corso dei secoli, specie dopo i danni subìti col terremoto del 1688.

Fortemente danneggiata da un bombardamento nel 1943, nel restauro postbellico la chiesa ebbe l’interno ripristinato in forme gotiche. Vista da via Carbonara, sembra poco appariscente in cima alla scenografica scalinata a doppia rampa a tenaglia, progettata nel XVIII secolo da Ferdinando Sanfelice. Ma l’interno della grande aula rettangolare con tetto a capriate, illuminata da alte monofore, riserva una meraviglia dopo l’altra.

Pressoché integre nella loro decorazione rinascimentale sono le cappelle, arricchite da significative opere di alcuni dei più rinomati scultori napoletani, lombardi, toscani e spagnoli attivi a Napoli tra il XV ed il XVI secolo. Fra tutte degne di nota quelle Somma, Miroballo e Caracciolo di Vito: architettura, quest’ultima, tra le più significative del XVI secolo nell’Italia Meridionale, con i sepolcri di Nicolantonio e Galeazzo Caracciolo, vincitore sui saraceni a Otranto, e altre statue e busti di esponenti di questa che fu una delle famiglie più potenti del viceregno spagnolo.

Ma lo sguardo è inevitabilmente attratto dal grandioso sepolcro di re Ladislao, fatto erigere da Giovanna II al fratello nell’area absidale: un capolavoro della scultura tardo gotica napoletana la cui ricchezza figurativa e ornamentale contrasta con la linearità delle strutture architettoniche della chiesa. Quasi tocca il soffitto con i suoi 14 metri ed è di poco inferiore al monumento funebre di re Roberto I d’Angiò nell’altra chiesa napoletana di Santa Chiara, cui s’ispira: opera mirabile, questa, resa purtroppo mutila e frammentaria da un incendio durante l’ultima guerra.

Nel livello inferiore 4 grandi cariatidi – le Virtù – sostengono la zona superiore costituita da un’arcata a tutto sesto sotto cui trovano posto le statue di Ladislao e di Giovanna seduti in trono, affiancati da altre Virtù; più su, un baldacchino fa ombra al sarcofago con le figure del re e della sorella scolpite sulla fronte mentre sul coperchio è la statua giacente di Ladislao, nell’atto di essere benedetto da un vescovo, lui che era stato invece scomunicato dal papa; al di sopra, due angeli e la Madonna col Bambino. Domina su tutto la statua equestre del re con la spada sguainata.

Chi fu Ladislao Angiò-Durazzo? Nacque nel 1376 a Napoli e in seguito alla morte del padre Carlo III, in un periodo di grandi sconvolgimenti per il regno, divenne re a soli dieci anni: motivo per cui visse tutta la sua adolescenza e forse parte della maturità sotto l’avveduta reggenza della madre Margherita. Collezionò tre matrimoni e un numero impressionante di altre donne. Nessun erede. Violento e dispotico, difese il regno contro le mire dei baroni e dei pretendenti di un altro ramo degli Angiò; temerario in guerra, vagheggiò l’idea di ampliarlo a scapito degli Stati confinanti, guerreggiando con successo sia contro il papa (di qui la scomunica) e sia contro la lega Firenze-Siena. Morì a Napoli nel 1414 a soli 38 anni, non è chiaro se per sifilide o avvelenamento.

Lo stesso giorno della sua morte Giovanna veniva incoronata regina di Napoli, anche lei più matrimoni e nessun erede. Ultima rappresentante della casata Angiò-Durazzo, trascorse una vita turbolenta, costretta come Ladislao a difendere il regno dai pretendenti e in contrasto col pontefice. In altri ambiti non fu da meno del fratello, stando alle cronache che con un certo compiacimento la descrivono come una mantide assetata di sangue e di sesso. Suo principale amante fu il gentiluomo Sergianni Caracciolo. Quest’uomo ambiziosissimo, avido di ricchezze e di potere, esercitò un tale dominio sulla regina da divenire, da primo ministro qual era, il vero padrone del regno; finché lei, stanca di esserne succube, lo fece assassinare in Castel Capuano (1432), secondo le medesime cronache.

Sergianni ebbe magnifica sepoltura in questa stessa chiesa di San Giovanni a Carbonara, al cui rinnovamento aveva contribuito con i suoi donativi. Mentre Giovanna, morta tre anni dopo il suo favorito, non venne sepolta qui, ma nella Santissima Annunziata Maggiore, altra chiesa di fondazione angioina. Della sua tomba però si persero le tracce dopo il rovinoso incendio del 1787.

Passando sotto la maestosa macchina gotica di Ladislao, completata nel 1428, si accede alla coeva cappella Caracciolo del Sole in cui campeggia il monumento funebre di colui che fu tempestoso amante della sorella. Meno grandioso del regale sepolcro e forse incompiuto, presenta in basso cinque grandi Virtù guerriere scolpite in marco bianco: sorreggono l’arca sormontata dalla statua a figura intera del defunto, rappresentato in posizione eretta con un pugnale nella destra; ad affiancarlo, due leoncini con elmo. Un’iscrizione in latino, composta dall’umanista Lorenzo Valla, ricorda la vita del Caracciolo fino alla congiura che gliela stroncò. Il luminoso ambiente circolare della cappella è impreziosito da una pavimentazione a piastrelle maiolicate, dagli affreschi di Leonardo da Besozzo (episodi della vita della Vergine) e da quelli attribuiti a Perinetto da Benevento (storie degli eremiti agostiniani).

Ladislao, Giovanna, Sergianni… Le solenni, orgogliose statue di questi tre personaggi, ciascuno in modo diverso legato all’altro, ma tutti accomunati dalla violenza e dall’ambizione, testimoniano – in un silenzio che soggioga il visitatore – la transitorietà delle passioni terrene.

E la statua ritrovata del Santacroce, capolavoro giovanile del più notevole esponente della scultura napoletana della prima metà del Cinquecento? L’ho vista appoggiata sul pavimento della navata in attesa di rioccupare la sua nicchia nella cappella Caracciolo di Vico. Scolpita in marmo bianco di Carrara e alta circa un metro, questa intensa raffigurazione del Precursore che chiamò a conversione i suoi correligionari m’è parsa il commento più indicato alla truculenta pagina di storia narratami da San Giovanni a Carbonara.

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