Quali liberali in Italia?

Le tracce di una cultura politica che ha determinato la storia del nostro Paese. Un percorso dalla Destra storica al lungo periodo berlusconiano passando attraversi Reagan e la Thatcher
. ANSA / INSIDEFOTO-SERENA CREMASCHI

Non si può tentare una ricerca di un’importante corrente di pensiero che rimanda alla “libertà” in Italia senza  partire da Benedetto Croce (1866 -1952) che, cominciando una nuova analisi sul pensiero liberale in periodo tardo fascista, non esitò a definire la libertà un metodo, cioè un bene primario, un pilastro su cui impostare la vita associata, che non doveva essere confuso con i bisogni, ideali o materiali, dei quali poteva favorire la gestazione (buone pratiche di governo, una società plurale, un mercato attivo, etc.).

Tra liberalismo e liberismo

Tale convinzione era irrobustita anche da un dibattito generazionale, che si caratterizzò a partire da una nuova sortita crociana, vale a dire la necessità di declinare la libertà secondo due sfumature semantiche diverse: liberalismo (di stampo etico e civile: la libertà è una questione di coscienza) e liberismo (di stampo economico: la libertà è connessa con l’utile, con ciò che è conveniente). Il problema, inesistente per molte comunità politiche che non possedevano la stessa distinzione lessicale, venne raccolto da un altro “padre nobile” del pensiero liberale italiano, Luigi  Einaudi, economista e secondo Presidente della storia repubblicana, per il quale andavano considerate commistioni tra le due aree di interesse, perché nel concetto di libertà economica erano inscrivibili principi e virtù morali: la mentalità d’impresa, l’assunzione di responsabilità dal privato al pubblico, lo spirito aperto e leale di competizione, il riconoscimento e la valorizzazione del merito.

Il ruolo della Destra storica cavouriana

La parabola del pensiero liberale in Italia può essere letta anche così, tra l’affermazione dell’etica civile e la sostanza dello sviluppo economico. Tale fu la proposta impersonata da Cavour e dalla Destra storica, che gestirono il processo di unificazione di una penisola frammentata da secoli, frutto di particolarismi che sembrava impossibile mettere insieme, ma la cui iniziativa nacque guardando alla cosiddetta “religione della libertà”, che aveva cominciato ad affermarsi tra il 1815 e il 1848 come una delle matrici che avrebbe accompagnato il formarsi dell’Europa contemporanea. Cavour fu liberale e liberista al tempo stesso (libero mercato, lotta al protezionismo reazionario, legami con i maggiori governi europei, etc.), sensibile all’esempio del bipolarismo inglese, attento al costituzionalismo belga capace di sanzionare una centralità crescente del parlamento nello sviluppo delle funzioni politiche, vicino al protagonismo francese in vista del riequilibrio strategico continentale. Come non riconoscere, infatti, nell’interpretazione parlamentare dello Statuto Albertino e nel connubio stretto con il portavoce della Sinistra storica e moderata Rattazzi, per isolare il potenziale pericolo delle “estreme” (anarchici, i primi socialisti), quella prassi di governo “al centro” della dinamica politica, aperto al compromesso e all’accordo di scopo, che ha guidato la storia dell’Italia per più d’un secolo?

 Il divenire e il complicarsi dello “spirito di governo”

            La stagione giolittiana (dal nome dello statista, Giovanni Giolitti, che ne incarnò lo spirito per quasi un ventennio), che tra fine XIX e inizio XX secolo prese l’eredità di tale impostazione teorico-politica, entrò in crisi non a causa della perdita di validità assoluta dei principi liberali, ma per l’incapacità di sintonizzarsi con la dimensione di massa che stava assumendo il discorso sociale ed economico. Era la stagione che stava preparando l’irrompere di partiti estesi, strutturati, i quali sarebbero stati protagonisti delle storiche battaglie politiche e sindacali, nonché della costruzione di democrazie forgiate dal confronto drammatico con i totalitarismi, con i quali, del resto, molta classe dirigente di stampo liberale si era accordata nel tentativo di mantenere significative fette di potere. Il liberalismo, nel tempo, divenne uno dei principi guida non tanto di un partito specifico (il piccolo Partito liberale rappresenterà in Italia una forza minoritaria), quanto di un modo di intendere la gestione della macchina statale, basata sull’accordo tra forze politiche moderate e mondo imprenditoriale, divenuto un vero fattore determinante per qualsiasi agenda governativa. Tuttavia, rispetto alle aspirazioni originarie, il discorso era progressivamente cambiato di segno. L’ispirazione iniziale aveva preso le mosse dalla stagione del New Deal rooseveltiano, con le quattro libertà (libertà dal bisogno, libertà di espressione, libertà di culto e libertà dalla paura), annunciate in occasione del discorso al Congresso americano del gennaio 1941, viste come il punto di equilibrio tra la democrazia politica e il benessere del mercato economico, che insieme avrebbero dovuto suggerire un modello esportabile. Ma a condizionare le pieghe successive fu piuttosto la guerra fredda e l’interpretazione data dallo spirito conservatore nelle sue due espressioni principali dal punto di vista politico (Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Gran Bretagna), che determinarono i capisaldi del nuovo pensiero liberale: anticomunismo, riformismo verticistico con privilegio delle classi medio-alte, mano ferma nella ‘questione sociale’, gestione del mercato a favore delle imprese e del capitale.

 Quale pensiero liberale in Italia?

          Il risultato nel panorama italiano, in capo al crollo della cosiddetta Prima Repubblica, con la perdita di credibilità del sistema dei partiti, già scosso da eventi periodizzanti come la caduta del Muro di Berlino e lo sgretolamento dell’impero sovietico, ha aperto la strada ad esiti contrastanti. Da una parte vi è stata la proposta di uno schieramento presentatosi come il continuatore della storia liberale (Popolo della libertà, Casa della libertà) e che ha trovato in Berlusconi un catalizzatore di consensi, un aggregatore di storie politiche disperse (popolarismo, socialismo) e in Forza Italia l’elemento base di un progetto di governo che ha “responsabilizzato” e integrato gli eredi di una parte dell’estrema destra, arrivata ad esprimere una classe dirigente (Alleanza nazionale con Fini); si è trattato di un ventennio che ha prodotto meno risultati delle molte aspettative create, il quale ha alimentato una nuova forma di leaderismo populista, che sembra volersi riproporre quale soggetto adatto a gestire la delicata fase attuale del Paese. Dall’altra, e non solo in Italia, gli eredi delle forze liberali, o spesso gli alleati e competitor, paiono trovarsi fuori dal vecchio binomio destra/sinistra e ingaggiati nelle nuove sfide politiche: globale/locale, stato nazionale/unione comunitaria, centralismo/autonomia, che disegnano una spinta sovranista dagli esiti ancora tutti da scrivere.

Consigli utili per la lettura

Emanuele Parsi, Titanic. Il naufragio dell’ordine liberale, Il Mulino, Bologna, 2018

Giovanni Orsina (a cura di), Storia delle destre nell’Italia repubblicana, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ), 2014

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