Quale repubblica?

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Ancora vicini al centenario dei fratelli Wright, i temerari sulle macchine volanti vengono subito alla mente, non appena si apre discorso sui temerari delle riforme istituzionali: impresa, come è noto, ad altissima mortalità politica. Di una riforma dell’ordinamento della repubblica si parla fin dagli anni Ottanta. I meno giovani ricorderanno le vicende della Commissione Bozzi (1983-’85) e quelle della De Mita- Jotti (1992-’94); la Bicamerale di Massimo D’Alema è storia recente. Tutte queste commissioni non hanno prodotto risultati, facendo rischiare anzi, ai loro protagonisti e promotori, di pagare pesanti pedaggi politici al fallimento dell’iniziativa. Cosicché ogni ipotesi di commissione per le riforme istituzionali viene accolta, in ambito parlamentare, da nascosti scongiuri e gesti scaramantici. Il centro-sinistra, alla fine della passata legislatura, modificò il titolo quinto della Costituzione basandosi solo sulle proprie forze, approvandola con uno scarto di quattro voti: un po’ poco per una riforma che introduceva elementi di federalismo nella nostra Costituzione. Il centro-sinistra creò, allora, un deprecabile precedente, e sta per raccogliere ciò che ha seminato. Pan per focaccia L’attuale maggioranza di centrodestra, infatti, si appresta a ricambiare la cortesia, portando in parlamento un disegno di legge approvato dal Consiglio dei ministri. Ci si poteva aspettare che su questa materia le diverse anime della maggioranza avessero raggiunto un’intesa stabile. Non è così, perché il dibattito fra le forze di governo ha manifestato non solo discordanze di dettaglio, ma modi antagonisti di guardare all’ordinamento della Repubblica. Per questo, i contenuti finali di questa legge, tenendo conto anche della doppia lettura da parte di ogni Camera prevista per le modifiche costituzionali, sono tutt’altro che scontati. Ne è testimone la bagarre accesasi successivamente al licenziamento del testo da parte della Commissione affari costituzionali, che ha introdotto emendamenti a quello approvato dai ministri; in esso infatti non compare la figura dei presidenti delle regioni nel futuro senato federale, pur essendo un concetto, in un primo momento, condiviso all’interno della maggioranza. Il testo della Commissione prevede, invece, l’istituzione di assemblee di coordinamento tra regioni: punto rinnegato, poi, da Udc e An, in conseguenza delle proteste di chi vedeva in tali assemblee la possibilità di costituire una specie di parlamento del Nord: proteste falsificanti, secondo la Lega. Ma in seguito a questi clamori, la maggioranza ha deciso che verranno eliminate tali assemblee, e reintrodotta la figura del presidente di regione-senatore. Ancora, Alleanza nazionale intende – contro il parere della Lega – introdurre nella riforma federalista il principio che essa non deve intaccare l’interesse nazionale. Non ci dilungheremo sulle mosse e contromosse politiche collegate a questo argomento, consapevoli, come siamo, che anche il lettore abbia dei diritti umani. Limitiamoci ad una sintesi dei punti centrali della proposta, e ad alcune osservazioni di fondo, anche tenendo conto che le decisioni dell’aula potrebbero cambiare di molto il testo attuale. La riforma federalista della Repubblica è l’elemento che caratterizza la presenza della Lega nel governo, ed è sempre stata parte integrante del programma con il quale l’attuale maggioranza ha vinto le elezioni: realizzarla è, per l’attuale governo, un dovere. Anche l’opposizione ha idee al riguardo, sintetizzate nella cosiddetta bozza Amato. La volontà di procedere, dunque, è comune. Il problema è fare un federalismo giusto, che rappresenti un maggiore compimento della nostra democrazia e dia maggiore realizzazione agli stessi princìpi costituzionali, fra i quali, non va mai dimenticato, è centrale la solidarietà, sia nella dimensione locale e regionale, che in quella nazionale. Dev’essere anche un federalismo funzionante: cosa sulla quale Roberto Formigoni, autorevole rappresentante della maggioranza e presidente della Lombardia, riferendosi al testo uscito dalla Commissione, ha espresso dei dubbi. Bisogna dunque cercare una soluzione che risponda a tutte queste esigenze, più una: cercare di introdurre questa riforma col più vasto accordo, come è nella natura delle riforme costituzionali, evitando l’errore di cercare di fare, ciascuno, da solo. Senato federale Una delle novità più rilevanti nella proposta del centro-destra è l’introduzione del Senato federale, che modifica l’attuale sistema di bicameralismo perfetto, nel quale le due Camere hanno, nella sostanza, le stesse funzioni. Le due nuove Camere risponderebbero invece a esigenze diverse. Quella dei deputati, eletti con sistema maggioritario, dovrebbe garantire una efficace azione di governo, attraverso la formazione di una maggioranza stabile. Al Senato invece, eletto con sistema proporzionale, sarebbe affidato il compito di garantire la rappresentanza dei territori; anche per questo, sarebbero eleggibili al Senato soltanto cittadini che abbiano maturato un’esperienza nell’ambito locale, avendo ricoperto in passato, o ricoprendo al momento dell’elezione, cariche elettive negli enti locali, o siano stati eletti deputati o senatori nella Regione. Alla diversa composizione delle Camere corrisponderebbe anche una diversità di funzioni nell’attività legislativa. Il numero dei parlamentari verrebbe considerevolmente ridotto: 400 deputati (un terzo in meno degli attuali) e 200 senatori. A questi si aggiungerebbero, sia alla Camera che al Senato, i parlamentari eletti nella circoscrizione Estero, rappresentanti degli italiani all’estero, e cinque senatori a vita. Ma la modifica maggiore in materia di competenza legislativa, e sulla quale è necessaria la più attenta riflessione, è, a nostro avviso, quella che assegna alle regioni di legiferare in maniera esclusiva su alcune materie, fra le quali l’assistenza e l’organizzazione sanitaria, l’organizzazione scolastica e la gestione degli istituti scolastici e di formazione: in questi ambiti viene meno ogni competenza da parte dello stato. Se la sanità ad esempio, viene interamente messa in mano alle regioni, è conseguente che anche le relative risorse siano di competenza regionale; e tali risorse sarebbero molto diverse fra loro, dato che in Italia abbiamo regioni ricche e regioni povere. Di conseguenza, anche le prestazioni assicurate ai cittadini sarebbero molto differenziate. Pensiamo, invece, che lo stato debba mantenere una competenza in queste materie, per assicurare a tutti i cittadini un adeguato livello di prestazioni su scala nazionale. Super-premier Un altro aspetto di rilievo nella proposta di riforma è il notevole potenziamento della figura del presidente del Consiglio, che potrebbe nominare e revocare i ministri del proprio governo. Egli verrebbe eletto direttamente dai cittadini, attraverso la pubblicazione del nome del candidato nella scheda elettorale, abbinato ad una coalizione. L’elezione diretta costituirebbe già un notevole rafforzamento del premier: se questi venisse sfiduciato, infatti, ben difficilmente il presidente della repubblica potrebbe dare ad un altro il mandato di formare un nuovo governo, senza andare direttamente contro la volontà espressa dagli elettori; in questa logica, non sarebbe possibile attuare ribaltoni come quello messo in atto, ai danni di Berlusconi, all’indomani della sua prima elezione nel 1994. Ma la proposta del centro-destra va oltre: intende blindare il presidente del Consiglio, conferendogli anche il potere di sciogliere la Camera dei deputati (potere che, attualmente, ha il presidente della repub- blica) l’unica che, nel nuovo ordinamento, conferisce o toglie la fiducia al governo. Il nuovo articolo 88 della Costituzione, che si vorrebbe sostituire all’attuale, recita infatti: Il presidente della repubblica, su richiesta del primo ministro, che ne assume la esclusiva responsabilità (“) decreta lo scioglimento della Camera dei deputati ed indice le elezioni entro i successivi sessanta giorni. Il fatto che il premier possa mandare a casa i deputati lo rafforza anche, e particolarmente, nei confronti della propria maggioranza. È da sottolineare che un tale rafforzamento dei poteri del premier incide fortemente sull’equilibrio tra i poteri che è sostanza della democrazia. Corte allargata Un cambiamento notevole toccherebbe anche alla Corte costituzionale, che passerebbe dagli attuali 15 membri a 19. Il presidente della repubblica e la magistratura nominerebbero, ciascuno, cinque membri (come avviene oggi). Gli altri nove verrebbero eletti tre dalla Camera e sei dal Senato. È da sottolineare che per eleggere un membro della Corte costituzionale è necessaria una maggioranza di almeno i tre quinti dell’assemblea e difficilmente una coalizione può contare su una tale preponderanza: l’attuale maggioranza, ad esempio, non arriva ai tre quinti, né alla Camera né al Senato; sarebbe dunque necessario un accordo sui nomi che darebbe rappresentanza anche alla minoranza. Ma avremmo comunque una Corte che rifletterebbe, molto più di oggi, gli equilibri politici presenti in parlamento, cioè, in ultima analisi, l’orientamento della maggioranza. In particolare, verrebbe a diminuire il peso della magistratura. E anche su questo punto sembra opportuna una maggiore riflessione, se si tiene conto del ruolo fondamentale di garanzia esercitato dalla Corte. Teniamo conto che queste osservazioni non devono essere intese come espressione di sfiducia nei confronti dell’attuale maggioranza, che alle prossime elezioni potrebbe cambiare; ma come l’esigenza di una limitazione del potere di qualsiasi maggioranza, a tutela di tutti i cittadini. Per questo, la garanzia migliore che i nostri parlamentari producano una buona legge sta nel trovare il più ampio consenso su di essa, adottando una spirito di collaborazione vera; chiediamo ai parlamentari, soprattutto in questo caso, di guardare al bene comune; a quelli dell’opposizione, di pensare alla riforma come se fossero al governo; a quelli del governo, come se fossero all’opposizione. Un consiglio ingenuo? Forse. Ma questa volta, è un’ingenuità che corrisponde al migliore metodo di lavoro possibile. CARDINALE RUINI UN APPELLO ALL’UNITÀ DEL PAESE Il cardinale Ruini, parlando, il 19 gennaio, al Consiglio permanente della Conferenza episcopale italiana, ha dedicato un’ampia parte del suo discorso all’analisi della situazione politica del paese. Di fronte ai numerosi problemi, egli ha espresso la fiducia nelle capacità dell’Italia di risolverli, purché non manchi, da parte di tutti, la volontà condivisa di quello sforzo comune che, con lo sviluppo degli eventi, si mostra sempre più necessario. Il cardinale ha sottolineato in particolare lo sforzo unitario che deve caratterizzare l’impegno politico, soprattutto davanti al compito delle riforme istituzionali che il paese attende, e che non possono venire condotte in maniera frammentaria: Rinnoviamo perciò alle varie forze politiche e sociali l’invito a non lasciar cadere le possibili intese e collaborazioni, pur nella legittima diversità delle posizioni e degli interessi rappresentati. Così quel sentimento dell’unità della nostra nazione e della comunanza dei nostri destini che è emerso con forza a seguito del tragico attentato di Nassiriya potrà portare frutti positivi anche nello svolgersi quotidiano delle vicende dell’Italia. Al di là delle attuali contrapposizioni, un banco di prova della volontà di collaborazione rimangono senza dubbio le riforme istituzionali. Occorre infatti riprendere un percorso iniziato a strappi da oltre un decennio e bisognoso di essere portato a compimento con una visione il più possibile organica e lungimirante, senza mettere nemmeno apparentemente in discussione l’unità della nazione.

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