Qualcosa è cambiato

Federico, la sua famiglia e i tagli al centro neuropsichiatrico frequentato sin da bambino.
Federico De Rosa

Avere un figlio autistico e non capire. È il dramma di tanti genitori che notano che nei loro pargoli qualcosa è cambiato.
Paola e Oreste De Rosa di figli ne hanno tre. L’ultimo, Federico, ha 18 anni ed è un ragazzo autistico “ad alto funzionamento”. Vuol dire con alte capacità cognitive. Frequenta il quarto liceo scientifico e colleziona anche un 9 in latino e un 10 in chimica. In questi casi è fondamentale una diagnosi precoce per poter intervenire e far acquisire strategie di comunicazione e apprendimento.
Federico stesso spiega via mail quello che vive. «Vedi – scrive Federico –, io sono molto solo perché non riuscire a comunicare a voce è un grosso limite. Non riesco proprio a capire come fate voi non autistici a trovare nella vostra testa al volo tutte quelle parole così giuste e a dirle così velocemente ed anche con espressioni del volto che completano ciò che volete comunicare. Per voi è normale ma a me sembra un miracolo. Io a fatica riesco a scrivere una lettera per volta e solo se papà mi è vicino.
«Anch’io, però, so fare delle cose per voi difficili, come parlare e ascoltare allo stesso tempo o ascoltare e comprendere due persone che parlano contemporaneamente di cose diverse. In sintesi, la mia mente lavora in un modo diverso da quella degli altri e ciò mi mette in difficoltà».
Difficoltà «sorte – spiega la mamma Paola – a 10 mesi dalla nascita. Prima Federico era un bambino come gli altri. Nei mesi successivi abbiamo notato che le sue capacità comunicative e di interesse per il mondo esterno, anziché crescere naturalmente con l’età, andavano regredendo».
L’autismo è una patologia seria che può essere associata a un ritardo mentale.
Non è il caso di Federico che però non era in grado di parlare. «Per noi familiari – racconta il papà Oreste – è stato innanzitutto un grande dolore. Vedere un proprio familiare crescere negli anni della scuola materna e poi della scuola elementare, senza poter mai sapere cosa sente, cosa vive, cosa pensa, è una condizione triste e dolorosa».
A due anni e mezzo Federico nel centro di neuropsichiatria infantile di via Sabelli a Roma, fondato dal prof. Giovanni Bollea, riceve la diagnosi: disturbo generale di sviluppo, poi evoluto con l’età in autismo ad alto funzionamento. Una delle grandi invenzioni del prof. Bollea, pioniere della cultura multidisciplinare della diagnosi e dell’intervento nella neuropsichiatria infantile, è di costituire un centro diurno terapeutico che Federico frequenta tutte le mattine per 6 mesi. Costituisce il trampolino di lancio verso dei progressi misurabili e decisivi. Ora il centro di via Sabelli, una delle eccellenze della sanità del Lazio, subisce la scure indiscriminata dei tagli lineari. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. I posti letto scendono da 22 a 6 e i medici da 20 a 10. Servizi essenziali non sono più garantiti. Per avere una diagnosi ci sono liste di attesa anche di un anno.
 
«La diagnosi precoce era uno dei nostri fiori all’occhiello – ci spiega Carla Sogos, neuropsichiatra infantile – e servono più risorse per mantenere i servizi e le competenze multidisciplinari».
La necessità di tagliare oggi le spese porterà in futuro a costi ancora maggiori perché crescerà in modo esponenziale la spesa pubblica per aiutare delle persone con scarse possibilità di recupero. Per ora, tutte le conseguenze ricadono sulle famiglie che sono costrette a rivolgersi a centri privati.

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