Qualche parola su Gaza

Mettere fine agli scontri tra palestinesi e israeliani e sostituire le vecchie strategie politiche, che fin troppo spesso hanno portato morte e distruzione, con una nuova cultura della pace: è l'imperativo per dare finalmente una svolta in Medio Oriente. Una riflessione
I leader di Hamas e al-Fatah dopo l'annuncio dell'accordo di riconciliazione tra i due gruppi

Il cinismo. C’è un cinismo della politica che mette al primo posto le proprie strategie rispetto alla vita delle persone. Questo vale per Hamas (nella foto Ismail Haniyeh, Abu Marzouk e Azzam al-Ahmad, leader rispettivamente di Hamas e al-Fatah dopo l'annuncio della riconciliazione tra le due fazioni palestinesi), che costruisce le sue caserme là dove ci sono le abitazioni civili, secondo un singolare paradosso per cui sono i civili inermi che difendono i soldati, e che lancia i missili kassam per scatenare la reazione militare di Israele, a protezione del suo popolo. Hanno rotto la tregua e hanno voluto i morti, i loro morti, perché sperano di guadagnare dall’odio. Una politica suicida, che nell’immediato può avere molti consensi.

Questo vale per Israele, che dopo aver sfiorato l’accordo con Abu Mazen, si è di nuovo rifugiata nella sindrome del Libano: una guerra giudicata da tutti necessaria al suo inizio e che poi si è impantanata, mostrando che la forza militare non sempre produce successi, ma anche sconfitte.

L’azione militare su Gaza è segno di una grande impotenza, non di una grande politica. Quando ci si affida a raid aerei devastanti non si guadagna nulla in termini politici, ma si semina quell’odio che poi ha bisogno di generazioni per essere superato. Si crede di vincere, invece perdono la pace e la sicurezza di tutti e di ciascuno.

Il cessate il fuoco. Tutti ora giustamente chiedono il cessate il fuoco, ma il fuoco non andava acceso. Non andava acceso da Hamas, non andava acceso da Israele. Il fuoco davvero non serve. Non serve contro la gente di Gaza. Non serve contro i cittadini di Israele. La stessa comunità internazionale, con la sua distrazione e il suo impegno ad intermittenza, ha dimenticato che il fuoco non era spento e covava sotto la cenere. Un anno si è perso. L’azione diplomatica non ha cambiato passo, l’azione umanitaria si è fermata di fronte all'emergenza economica in Occidente, lo sviluppo è stato rinviato a tempi migliori. Nel vuoto della politica è di nuovo cresciuta la tentazione della violenza. E dalla tregua si è passati alle armi. E abbiamo visto quello che non dovevamo vedere. 

I bambini. Ho conosciuto i bambini di Gaza. Quelli malati, che ho visitato a marzo nei loro ospedali. Quelli (50) che questa estate hanno partecipato al campo estivo con 50 bimbi di Sderot. Non so dove sono in queste ore. Forse qualcuno è stato ucciso, forse qualcuno è stato ferito, forse qualcuno ha la casa distrutta. Ma tutti, tutti mi hanno sempre chiesto la salute, la pace, la scuola, la vita felice con le loro famiglie. Ecco, io credo che, se vogliamo risolvere questo conflitto, dobbiamo avere il coraggio di guardarlo con gli occhi dei bambini e non con il calcolo della politica cinica. I bambini, che sono le prime vittime di ogni guerra, anche di questa, ci indicano la strada. I bambini di Gaza e di Sderot ci indicano la via del dialogo, della convivenza, della fraternità, della condivisione. Non è un approccio ingenuo, se quello saggio sono i bombardamenti e le stragi. È l’unico realismo possibile se si vuole evitare la catastrofe in tutto il Medio Oriente.

La resistenza. Ecco la parola chiave per una nuova cultura della pace: resistere al male, resistere alla violenza, resistere alle armi, resistere alla tentazione del dominio, resistere alla giustificazione della violenza in nome di un presunto diritto. La resistenza alla guerra e non attraverso la guerra. La resistenza ad ogni operazione mortifera, perché nell’uccisione dell’altro c’è anche la nostra morte. Davvero tutto è perduto con le armi e nulla è difeso. È solo un'illusione pensare che le armi ci difendano e ci diano sicurezza.

Una nuova cultura della pace. Anche a Gaza la vecchia cultura della guerra produce il suo fallimento. Non si ottiene nulla se non la morte. Bisogna imparare a guardare la realtà con gli occhi del nemico, comprendere il suo dolore e la sua domanda di giustizia, riconoscere le nostre responsabilità per il dolore e l’ingiustizia che gli tocca di vivere, anche per le nostre complicità e responsabilità.

Il 2009 è stato dedicato dalle Nazioni Unite alla riconciliazione. Se lo sarà a Gaza, lo sarà in tutto il mondo. E questo dipende anche da noi.

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