Qualche cosa di grande

Alessandra Zenari e i suoi sessant'anni di impegno a tutto campo per la società.
Alessandra Zennari

«Guardando indietro alla mia vita, vedo il “filo d’oro” che l’ha condotta, cioè il cammino che Dio mi ha fatto fare. Era il primo dopoguerra e, ricordo, attraversavo un periodo di crisi profonda, alla ricerca di un punto fermo. Per questo studiavo filosofia con passione. Tuttavia avvertivo un’intima insoddisfazione per un’esistenza che vedevo spesso vuota. La mia preghiera di allora era: “Signore, fa’ che la mia vita non sia inutile”. Nel 1949, il 19 ottobre – come potrei dimenticare quella data? – ad Assisi, conobbi Graziella De Luca, una delle prime compagne di Chiara Lubich che, ovviamente, mi parlò dell’ideale dell’unità che da Trento, proprio in quegli anni, stava spargendosi in tante contrade d’Italia». 

Quella corrente di genuino spirito cristiano esercitò su Alessandra una forte attrattiva. Iniziò a frequentare il primo focolare romano alla Garbatella, dove conobbe Chiara, oltre a Graziella, Giosi Guella, Ginetta Calliari. «Ricordo specialmente Dori, accanto alla quale in seguito avrei lavorato per tanti anni al Centro internazionale del movimento. Io, pur ammirando la loro scelta, non mi sentivo chiamata a seguire la strada della consacrazione a Dio nel focolare. Perciò, per dieci anni stetti un po’ a guardare. Solo più tardi compresi quanto fondamentali fossero quegli anni proprio per il ruolo che sarei stata chiamata a svolgere nell’Opera di Maria.

«Nella Mariapoli del ’59, a Fiera di Primiero, sentii parlare di Maria come sfondo in cui viene in rilievo Gesù, il Verbo. E fu allora che incominciai a intuire che c’era con la madre di Gesù un rapporto profondo, non spiegato completamente. Compresi meglio quando si delineò in tutta la sua ampiezza una vocazione specifica nei Focolari, quella dei volontari. Sentivo di essere fatta per le posizioni più avanzate, per l’umanità. Allora, in seguito ai fatti di Ungheria, erano appena agli inizi i “volontari di Dio”, la diramazione dei Focolari più direttamente impegnata nel campo sociale e civile. Io fui, appunto, una volontaria della prima ora».

Ma chi era l’Alessandra di allora? Una donna in carriera, si direbbe oggi, manager di una grossa ditta di import-export con sede nella prestigiosa piazza di Spagna, a Roma. Fresca di laurea in filosofia, cercò subito un lavoro che le desse la possibilità di non pesare sulla famiglia dal punto di vista economico. Con la fine della guerra, pur in mezzo a tante rovine, iniziava la ripresa del Paese, e chi non aveva paura di rimboccarsi le maniche riusciva a trovare lavoro. «Conoscevo bene il tedesco, l’inglese e il francese e fui subito assunta per la corrispondenza con l’estero. In tre mesi, imparai a tenere bilanci, a trattare con la partita doppia e a fare i primi viaggi per affari». Proprio in quell’ambiente difficile e competitivo Alessandra visse le sue prime, significative esperienze di un modo originale di concepire l’attività economica, in cui “l’avere” non avesse il sopravvento sul “dare”.

«C’era stata – racconta – l’alluvione del Polesine, e tutti i mezzi di informazione ne riportavano la notizia. Il Messaggero aveva aperto una sottoscrizione. Una mattina il mio capo, parlando dell’avvenimento, mi chiese un parere sul da farsi. Gli riferii il mio proposito di donare 90 mila lire, l’equivalente dello stipendio di un mese. Lui, facendo tra sé e sé un rapido calcolo, disse: “Oggi lei mi sbanca”. Non compresi lì per lì cosa intendesse dire. Sul finire della mattinata, mi invitò ad accompagnarlo alla sede del giornale. L’impiegato allo sportello domandò quanto volevamo sottoscrivere, e lui, con il pollice teso, fece il segno “uno”. “Uno che cosa?”, chiese l’impiegato. “Un milione”. Il giorno dopo il fatto venne riportato nella cronaca del giornale».

 

Alessandra conserva un ricordo ancora vivissimo dei “primi tempi” dei Focolari nella capitale degli anni Cinquanta. «A Roma, allora come ora, i poveri erano davvero tanti. Assieme ad alcune persone conosciute nell’ambito del movimento, avevamo iniziato a frequentare un agglomerato di baracche a Tormarancia. Vi si erano insediati molti poveri che non avevano dove andare: erano i reietti, gli emarginati.

«Cominciammo col portare alimenti e vestiario, generi insomma di prima necessità. Un religioso aveva trasformato una baracca in chiesa. Io cercavo di coinvolgere conoscenti e colleghi di lavoro. Una volta io e Bianca, una cara amica molto generosa, ci imbattemmo in una ragazzina delle baracche che fumava tranquilla per la strada. “E pensare che per lei io ho smesso di fumare”, mi disse con una risata. Vedendo tanta miseria, si era proposta infatti di non fumare più e di dare il corrispettivo per i baraccati. Un medico mio compagno d’università visitava regolarmente i bambini. Quell’esperienza andò avanti per un po’ di anni, sino a quando, al posto delle baracche, fu spianata la grande arteria della Cristoforo Colombo».

Alessandra Zenari, ora ultraottantenne, vive nel suo appartamentino circondata dall’affetto e sostegno di tante amiche che operano al Centro internazionale dove lei ha prestato per tanti anni il suo prezioso contributo, sino a quando la salute glielo ha permesso.

Viene spontaneo chiederle come vive ora questo tratto della sua vita. «Di quest’ultimo periodo posso dire che è bellissimo; sembra un controsenso, ma giorno per giorno posso accogliere quelle limitazioni fisiche, anche intellettuali, come un dono di Dio che vuole preparami a qualche cosa di grande. Allora direi che è una vita piena.

«Ritrovo anche in me una comprensione più grande degli altri. Forse perché, se la vita fisica è molto più limitata, non lo è quella dello spirito, del cuore. E poi, sentirti partecipe della vita di quanti ho conosciuto in questi anni, delle loro sofferenze e delle loro gioie… Ecco: non mi pare di condurre una vita inutile, ora che posso fare ben poco».

Come vive il suo impegno di volontaria, ora che non ha più un ruolo “attivo”? «Oggi soffro meno di certi “tagli”, perché penso che altri che hanno preso il mio posto fanno certamente meglio. Se affidi tutto a Dio, poi vedi che lui mette le cose a posto. Veramente: la preoccupazione è qualcosa che ti immobilizza, e se perdi anche quella, sei libera».

L’Alessandra di ieri era immersa appassionatamente nella realtà sociale. Ma l’Alessandra di oggi negli occhi limpidi lascia trasparire il percorso spirituale che sta facendo: un cammino non di spoliazione, ma di autentica libertà.

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