Ma qual è il modello giusto d’integrazione?

Modelli d’integrazione a confronto. La Gran Bretagna sottopone a forte critica il proprio modello d’integrazione. E gli altri? Francia in crisi. I modelli-non-modelli tedeschi e italiani stanno un po’ meglio
Integrazione fra ragazzi

In appena tre mesi l’attentato di Manchester e i due di Londra sono stati capaci di scuotere dalle fondamenta il plurisecolare modello di integrazione britannico, dopo che Charlie Hebdo e Bataclan avevano messo in crisi quello francese, altrettanto vecchio. Tedeschi e italiani, invece, non hanno veri e propri modelli, ma riescono meglio in questo momento a canalizzare gli arrivi di immigrati e a evitare grossi episodi terroristici.

Ma di cosa si parla? Innanzitutto serve una premessa: il termine “integrazione” è ambiguo. In sé contiene infatti l’elemento più discusso oggidì: debbo infatti abbandonare una cultura per sposarne un’altra nella sua integralità? Sarebbe forse più giusto parlare di convivenza, o di coabitazione, fors’anche di inserimento o armonizzazione sociale. Questioni lessicali: il problema è come si possa vivere assieme e far sì che una società resti coesa. Qualche decennio fa, senza le ondate migratorie avviate dalla rivoluzione dei trasporti e dell’economia, la cosiddetta globalizzazione, tutto era più semplice perché i numeri erano bassi.

Quattro sono i modelli, due più antichi, gli altri due più recenti. Forse può essere interessante conoscerli un po’ di più. Vediamoli così uno dopo l’altro, con le ragioni delle difficoltà attuali, chiedendo perdono per le necessarie semplificazioni.

Modello britannico, cioè multiculturalismo: è il più vecchio di data, eredità dell’imperialismo. Consiste nel lasciare che l’immigrato conservi la sua cultura, offrendo persino scuole e diritti di riunione e coltivazione di tradizioni culturali d’origine. In cambio vanno rispettate le leggi dello Stato in toto, almeno fuori dai quartieri dove si vive. Il problema sta proprio nel fatto che poco alla volta si sono creati dei Londonistan a carattere etnico (pakistani, afghani, siriani…) difficilmente controllabili, incubatori di mentalità radicaleggianti.

Modello francese, cioè assimilazione: è l’altro grande modello d’integrazione, basato al contrario degli inglesi sul fatto che chi entra in Francia e vuole viverci deve non solo rispettare le leggi dell’esagono, ma rinunciare nei fatti a dichiararsi di un’altra cultura o etnia. In cambio, come è accaduto a Sarkozy di origini ungheresi, puoi diventare presidente della Repubblica già alla seconda generazione. Le banlieue delle grandi città sono però diventate dei ghetti con i due terzi di esclusi e un terzo d’integrati, al punto che tornano a galla gli ancestrali richiami della cultura d’origine, che nei giovani più destabilizzati e al limite della legalità si trasformano in orgoglio terrorista.

Modello tedesco, cioè pragmatismo: i milioni di turchi che a partire dagli anni Sessanta hanno traslocato in Germania hanno spinto la società tedesca a creare un non-modello che consiste nell’evitare di creare ghetti, di penalizzare l’accesso alle scuole ai ragazzi o di permettere discriminazioni di sorta nell’accesso al lavoro, in cambio di una sostanziale libertà religiosa e di cultura. Il modello sembra aver funzionato, ma l’ondata migratoria siriana ha messo il dito nella piaga: nonostante tutto, larghe fasce di popolazione vivono le une accanto alle altre, ma senza reale contatto. Così è frequente vedere nel centro delle grandi città birrerie ovviamente frequentate solo da tedeschi e caffè frequentati al contrario solo da stranieri, musulmani in particolare.

Modello italiano, cioè prossimità: anche questo è un modello-non-modello, che funziona in ambito extraurbano. Sta emergendo come frutto dello sparpagliamento degli immigrati fuori dalle città, nelle campagne e nei piccoli centri, dove svolgono i lavori che gli italiani non fanno più (vaccari, braccianti, operai agli altiforni, badanti…). Occupano l’abitato abbandonato dagli italiani, restaurandolo e vivificandolo. Questo modello pratico non funziona nelle grandi città, dove le concentrazioni e le emarginazioni delle minoranze sono evidentissime. Qualcuno parla di “modello di adozione” (Riccardi).

Ripeto, si perdoni la sintesi semplificatrice, a cui dovrei aggiungere il modello statunitense, ma quella è un’altra storia. La vecchia Europa deve fare i conti con questi quattro modelli, capendo gli errori del passato (soprattutto dei modelli britannico e francese) e aprendosi a nuove soluzioni più pragmatiche. Una sfida enorme, dal risultato comunque non garantito, in cui il ruolo primario spetta come sempre alla politica; ma le religioni posso essere di grande aiuto, o al contrario ostacolo, se coinvolte o meno dai politici nella ricerca di soluzioni utili e pacifiche.

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