Qohélet, Leopardi e il Cristianesimo

Sono molto lieto per il fatto che Loretta Marcon, studiosa che stimo particolarmente, compie il dittico leopardiano, lei che l’ha iniziato: dopo Giobbe e Leopardi, Qohélet e Leopardi (Napoli, Guida in cui viene pubblicata in parte questa presentazione), in un confronto necessario in sé stesso e con il precedente. È ineliminabile in una seria critica leopardiana il riconoscimento della presenza, profonda e pervasiva, e dunque della centralità, in una lettura seria di Leopardi, dell’asse biblico-filosofico su cui si allineano pessimismo- rivolta e nichilismo, Giobbe e Qohélet, appunto. Questo asse di ispirazione e riflessione incrocia l’altro, di Dio stesso, come tale (il Dio biblicocristiano) nel poeta di Recanati; al quale ho dedicato anni fa un mio specifico saggio in colpevole assenza di questa tematica nella critica leopardiana, che ora per parte sua la Marcon contribuisce ad aggiornare e completare preziosamente. Siamo il Paese degli storici steccati (storici, reviviscenti e stucchevoli, ormai), e perciò anche Leopardi si è trovato laicizzato ad oltranza, pur essendo morto deliberatamente e sacramentalmente cristiano, ed essendo vissuto molto più vicino, dolorosamente, al cristianesimo, del quale aveva perduto la fede teologale, rispetto a tanti credenti della domenica o miscredenti superficiali e sommari. Il pensiero religioso di Leopardi è continuo, potente, tragico nelle prose e nelle poesie: chi lo nega o non conosce Leopardi o lo disconosce ideologicamente; e se si rifugia nella formula di emergenza Leopardi ateo incorre nel più clamoroso infortunio. L’ipotesi della non esistenza di Dio, infatti, occupa in lui solo lo spazio di una ipotesi (Zib. 1713, 4248, 4274- 4275), e non ha seguito asseverativo, mentre non ha mai fine in Leopardi l’inseguimento (antiteistico, ben altra cosa dal distacco ateistico) del Dio-natura malvagio/matrigna, al quale il poeta infine rivolge, nel famoso frammento-abbozzo di un inno Ad Arimane, quella che ho definito (e non me ne pento) preghiera-bestemmia, pregandolo e maledicendolo per un dolore di vivere che da lui origina e che Leopardi trentacinquenne non sopporta più (Non posso, non posso più della vita). Leopardi non è un grande, è un genio: conduce a catastrofica chiarezza la grande crisi della cultura occidentale, del suo razionalismo sino naturalistico anche religioso, per il quale la verità si va prosciugando di vita e caricando di insostenibile astrattezza concettuale, e l’idea è sempre meno ciò che si vede (com’è in greco, nei greci, in Platone) e sempre più ciò che sterilmente solo-si-pensa, che non è vita, non fa vivere. Devo evitare nomi per non allargare indebitamente il discorso, ma uno ho l’obbligo di farlo: Galileo, sincero cristiano malamente trattato dall’Inquisizione, non si accorse che il suo genio trascinava però già esiziali scorie scientiste: quando dice che in certi ambiti e limiti (i princìpi geometrici, ad esempio) l’uomo può conoscere come Dio; e quando afferma che la natura non s’intende se non se ne comprendono i caratteri matematici in cui è scritta, dice due enormità, purtroppo mai rilevate, contro ogni verità teologica (lui che in altri casi era buon teologo) ma anche culturale, perché la conoscenza che Dio ha, a differenza di quella umana, è creatrice, e perché la conoscenza matematica della natura, pur ricca di futuro scientifico (nel senso delle scienze naturali, che non sono tutte le scienze e tutta la conoscenza) e tecnologico, non è certo l’unica conoscenza della natura stessa: e quella spirituale, dalla Bibbia a san Francesco, e quella poetica, artistica e filosofica e teologica? E poi: i concetti entusiastici di Galileo non sono più entusiastici in Bacone, in Cartesio, in Hume: e siamo già a Leopardi, che giustissi- mamente grida Oh infinita vanità del vero! e canta, facendo rabbrividire, E conosciuto il mondo/ Solo il nulla s’accresce. La conoscenza, per quanto razionalmente acuta – e proprio perciò prevaricante, perché totalizzante -, se non è anche e medesimamente vita, produce morte, insensatezza che mortifica e annienta, perché la conoscenza- vita si sviluppa e ha senso nel tempo, e, dice il grandissimo T. S. Eliot, senza significato non c’è il tempo: infatti la ragione, dice e ripete Leopardi, è nemica della natura cioè del ritmo vitale del tempo, se lo astrattizza; e se anche la natura si rivela poi matrigna – come la madre stessa di Leopardi nel suo cristianesimo capovolto (Zib. 353-356), e tutta la natura quantificata e meccanizzata dal pensare filosofico-scientifico, con la filosofia ridotta ormai a poco più che ancilla scientiae naturalis, dei due secoli che precedono Leopardi – allora davvero non ha più senso vivere la vita naturale, e anche quella soprannaturale, perché la grazia presuppone la natura; ed è il caso di chiedere alla luna, simbolo straziante, e con i versi più agghiaccianti scritti nell’era cristiana: Tu sai, tu certo, a qual suo dolce amore/ Rida la primavera (Canto notturno), vera apocalisse cioè rivelazione della catastrofe culturale-religiosa dell’Occidente. L’infinita vanità del vero è una intuizione addirittura evangelica. Infatti nei Vangeli la verità non è mai un concetto, è la persona di Cristo che dice Io sono (…) la verità (Gv 14, 6), e in tutta la Bibbia verità (‘emet), pur arricchendosi nei tardi libri del Primo Testamento di connotazioni intellettuali ellenistiche, significa e continua a significare fondamentalmente fedeltà, lealtà (Verità di Jhwh, passim); e infatti nel Nuovo Testamento si parla di fare la verità (Gv 3, 21; Ef 4, 15), perché ogni conoscenza astratta dà morte: la lettera uccide, è lo spirito che vivifica, 2 Cor 3, 6. La profonda, infinita protesta del genio di Leopardi contro la verità che non dà vita ma morte, quindi contro la ragione assolutizzata, contro le sue illusioni vuote, contro Dio stesso inteso come termine di verità morte e mortifere, giustamente non cessa. Se Leopardi avesse davvero conosciuto il Dio cristiano (il Dio vivente e Padre di Gesù Cristo), lo avrebbe distinto e separato dalla frana culturale dell’Occidente razionalista, di cui sono (siamo) in parte responsabili i cristiani stessi; non dico: avrebbe ritrovato la fede, perché questo nessuno può e deve dirlo (anche se resta vero che ritrovò la volontà sacramentale), ma certo non avrebbe identificato, come fece, la tragedia del nichilismo e la colpa di Dio. È su questo preciso e vastissimo sfondo che bisogna pensare il rapporto di Leopardi – lungo, consapevole, voluto – con il sapiente desolato Qohélet, suo simile anche se tanto diverso, come bene lo illumina Loretta Marcon nel suo saggio, confrontando il deluso negatore ecclesiaste e l’ardente disperato poeta moderno che odia la vita e te la fa amare (F. De Sanctis). E la precisa, particolareggiata disamina che la studiosa conduce del loro rapporto, corredata dell’essenziale pertinente bibliografia e perfino della conoscenza della biblioteca di Casa Leopardi, con la padronanza sicura e totale dei testi, risulta per più versi e progressivamente rivelatrice: lo hebel qoheletiano e 1’infinita vanità del tutto qoheletianoleopardiana si assimilano e si dissimilano con una ricchezza di motivi dalla quale il lettore resterà preso e affascinato.

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