Pulizia etnica in Zimbabwe, come è sopravvissuto Freedom

Le parole di un uomo scampato allo sterminio di un'etnia raccontano il periodo drammatico dello Zimbabwe. Ottavo reportage del pellegrinaggio di carità "AlimentiAMO la SPERANZA"
Zimbabwe
Robert Mugabe, primo ministro dello Zimbabwe dal 1980 al 1987 e poi presidente dal 1987 al 2017 (ph. Al Jazeera English

Incrocio il suo sguardo quando mi fermo in un villaggio che si trova poco dopo l’aeroporto di Victoria Falls. Il caldo è opprimente e ai limiti del sopportabile. Da pochi giorni mi trovo nello Zimbabwe, quarto Paese del pellegrinaggio di carità nel nome di Maria. Sono vicino ai 2800 chilometri percorsi e dunque, poco per volta, mi sto avvicinando a un’altra soglia psicologica importantissima da raggiungere: quella dei 3 mila km. Oramai il giro di boa l’ho superato. Mi sembra ieri il giorno in cui, partendo dal sagrato della cattedrale di Dodoma, capitale della Tanzania, ho dato avvio a questa avventura di solidarietà che, come in tanti mi hanno confermato, non ha precedenti a livello italiano né internazionale. Mi sembra ieri e invece sono già trascorsi 5 mesi. Un lasso di tempo sì pieno di incontri, pensieri e soddisfazioni, ma soprattutto colmo di tenacia e voglia di farcela. La cattedrale di Maputo dedicata all’Immacolata Concezione mi aspetta.

Prima di giungere però nella capitale del Mozambico, mi attendono ancora 4 mesi di cammino nei quali l’avversario numero uno sarà, senza dubbio, il caldo torrido. E proprio per via della calura notevolissima, in un piccolo villaggio nel quale appunto mi fermo per tirare il fiato, incontro un uomo che a primo acchito mi dà l’idea di essere una sorta di sopravvissuto. Ci presentiamo e mi dice di chiamarsi Freedom. Replico dicendogli che mi pare un nome tutt’altro che comune nello Zimbabwe. Lui annuisce aggiungendo però di non fare altre domande riguardo le sue generalità altrimenti avrebbe interrotto la conversazione. Mi adeguo per una ragione: ho motivazioni più che fondate per ritenere che il suo aspetto da persona a dir poco sofferente non sia una semplice casualità e che quindi dietro al suo volto al tempo stesso rude e malinconico si nasconda una storia che merita di essere raccontata. Mi dice con fierezza di avere 73 anni e di appartenere all’etnia Ndebele, la terza più diffusa nello Zimbabwe. La sua famiglia era composta da 8 figli e lui era il secondogenito. Utilizza proprio il verbo al passato e gli domando il motivo. «Perché in quel maledetto giorno di novembre del 1982, quando avevo 32 anni – risponde Freedom – i miei genitori, le mie 5 sorelle e i miei 2 fratelli sono stati fucilati. Io sono vivo per miracolo e a distanza di oltre 40 anni mi chiedo ancora perché». Il sangue nelle vene mi si gela. Sono frastornato, come inebetito. Mai infatti avrei immaginato che l’espressione pur sofferente del viso di Freedom potesse celare una quantità così notevole di dolore.

Nel frattempo la sua faccia si è fatta scura. I suoi occhi veicolano rabbia, ira, odio. Gli chiedo se se la sente di proseguire. È il suo sguardo che risponde. Le parole non servono anche se dopo pochi attimi che sembrano durare un’eternità, aggiunge: «Sì, perché ancora moltissime persone non sanno». «Eravamo una famiglia povera ma felice. Unitissimi l’uno all’altro e soprattutto con un padre e una madre dai cui gesti, dal più banale al più serio, sgorgava amore. Si erano sposati giovanissimi e sempre da giovanissimi erano diventati genitori. Nel 1947 era nata mia sorella, nel ‘50 io e poi nel giro di 12 anni altri 6 figli. A partire dal 1980 − prosegue Freedom − l’aria che si respirava nello Zimbabwe iniziò a farsi pesante quasi esclusivamente per le persone che appartenevano alla mia etnia. Eravamo visti come inferiori. Cominciò la pulizia etnica. Nel giro di 7-8 anni vennero uccise circa 20 mila persone, tutti Ndebele. E fra queste ci furono i componenti della mia famiglia». Freedom non riesce quasi a terminare la frase. Si accascia. Le lacrime iniziano a rigargli il viso pieno di polvere. Il rumore del suo pianto difficilmente lo dimenticherò. Non senza difficoltà mi racconta cosa accadde in quella terribile giornata di novembre:

«Eravamo in 9: i miei genitori, 4 delle mie 5 sorelle, i 2 miei fratelli e io. Tornavamo dai campi. La stanchezza camminava con noi. Eravamo a pezzi ma contenti perché le colture crescevano bene. Novembre da noi è piena primavera e la pioggia cade abbondante. A un tratto, in lontananza, scorgiamo i militari. Erano quelli della 5a Brigata, quella il cui compito era eliminare gli appartenenti alla mia etnia. Bloccano mio padre e lo trascinano lontano da noi. Le altre 8 persone, fra cui io, vengono raggruppate vicino a un casolare abbandonato. Loro erano in 6. Iniziano a fare fuoco. Il corpo della mia sorella maggiore mi fa da scudo. Nella tragedia, la mia fortuna è stata quella che gli assassini non si sono avvicinati a noi dopo aver sparato. Credevano che fossimo tutti morti. Io avevo il corpo di mia sorella sopra di me. Ho fatto finta di essere anch’io senza vita. Quella è stata la mia salvezza. Dopo pochi minuti − continua Freedom − quegli assassini hanno raggiunto mio padre e con lui si sono allontanati.

Sono rimasto tutta la notte a vegliare i corpi di mia madre, delle mie sorelle e dei miei fratelli. L’indomani mattina ho raggiunto la nostra casa. Qui ho trovato i cadaveri di mio padre e della mia sorellina più piccola. Sono andato in un prato poco distante da casa e ho scavato una grossa buca. Qui ho adagiato i loro corpi. Nel pomeriggio sono andato a prendere gli altri miei familiari. Ora riposano tutti insieme. Da quel pomeriggio di novembre 1982, pur continuando a vivere, la mia interiorità si è svuotata. È diventata un deserto. Se non avessi una profonda fede cattolica, credo che mi sarei suicidato. Diverse volte ci ho pensato − sottolinea − ma mi sono detto che se avessi trovato la forza di compiere un gesto simile, la mia anima sarebbe andata direttamente all’inferno e dunque non avrei mai avuto la possibilità di rivedere i miei amati genitori, sorelle e fratelli che ora si trovano in Paradiso. Sono andato avanti per inerzia fino al 6 settembre 2019, giorno in cui lui è morto (non nomina mai per nome l’ex dittatore Robert Mugabe, deceduto proprio in quella data, nda). Da lì in poi, in me, è sopraggiunta una lieve leggerezza che mi ha fatto andare avanti, giorno dopo giorno, in maniera un po’ meno traumatica.

Ora hai compreso perché mi chiamo Freedom. I miei amati genitori mi avevano dato lo stesso nome di lui. Dal giorno della tragedia e fino alla morte di quel demone, farmi chiamare come quel criminale violentava il mio essere. Dopo che se n’è andato a bruciare all’inferno − conclude − , ho deciso di darmi il nome che fosse quanto più all’opposto rispetto alla concezione che lui, il male, aveva della vita. E questo nome non poteva che essere Freedom (libertà, nda)».

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