Puccini

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Per molti Le quattro stagioni di Vivaldi sono solo una pizza particolarmente farcita. D’altronde, se al Festival della musica italiana la più bella canzone è quella di Marco Carta, significa che qualche problema ce l’abbiamo. Saremo anche il Paese di Verdi e di Pavarotti, ma non c’è dubbio che sulle sette note un po’ ignoranti siamo, figli di una scuola che all’educazione musicale dedica ormai spazi grandi come sgabuzzini. È anche figlia di questo ritardo culturale la miniserie su Giacomo Puccini andata in onda in due puntate su Raiuno. Chi l’ha scritta e prodotta, girata e interpretata sembra essere partito da questo dato di fatto. Consapevole di avere di fronte non un pubblico di melomani, ma uno di Amici, ha sentito il bisogno di spiegare tutto, di cercare le soluzioni narrative più scontate, di smussare ogni difficoltà, catturando lo spettatore con le note più celebri, da spot tv. Con il risultato però di un racconto che scivola via freddo, poco emozionante, lontano, distante come sembra alla massa il mondo della lirica. Un microcosmo fatto di addetti ai lavori e innamorati del bel canto, spartiti e loggioni, solfeggi e chiacchiere dotte nel foyer. Il paradosso è che questa sensazione si faccia strada proprio raccontando di Puccini che della sintonia con l’animo popolare aveva fatto uno dei capisaldi della sua arte. Bravo è Alessio Boni a dar corpo all’inquietudine, alla ruspante toscanità, all’insicurezza profonda, al nomadismo sentimentale del maestro di Lucca. Un po’ meno lo asseconda la sceneggiatura che ancora una volta ricorre ad un flashback per dipanare la storia. È l’intervista di una cronista, nei giorni del travaglio creativo sulla Turandot, ad aprire lo scrigno dei ricordi e a fare da filo conduttore alla storia personale del musicista, narrata in tv con un anno di ritardo rispetto al 150esimo della nascita. L’apoteosi è nella seconda parte, quando la musica di Puccini (riletta nella colonna sonora del rodato Marco Frisina), diventa finalmente la vera protagonista del film, lasciando per un po’ nel camerino i dettagli privati, i risvolti pettegoli della storia. Volevo vederla ma dopo aver sentito ripetere per l’ennesima volta Turandò, alla francese, ignorando che sia un nome cinese, inventato da Gozzi, beh… ho pensato che era meglio lasciar perdere e ho spento la tv, ha commentato arrabbiata a La Stampa il soprano Fiorenza Cedolins, tante volte impegnata in titoli pucciniani. Sfogo giustificabile e forse giustificato, ma che ci riporta alla casella di partenza. Non è un giudizio troppo snob? E se neanche la fiction tv ci riesce, chi potrà mai ridurre la distanza tra il silenzio ovattato della platea e il chiasso sguaiato del mercato?

 

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