Prevenire piuttosto che reprimere

I marines americani lasciano l’Afghanistan. Abbiamo visto con piacere avviarsi all’imbarco questi ragazzoni che, se non fosse per gli armamenti in dotazione, potrebbero venire scambiati per turisti. Sono destinati al rimpatrio. Già rimpiazzati da una forza multinazionale – ci sono anche gli italiani fra questi – incaricata di mantenere la pace. Le grandi operazioni belliche sembrano finite, anche se continuano gli attentati e le scaramucce.A Kabul si è insediato un governo “amico”, ma l’Afghanistan resta diviso dalle rivalità di sempre e Bin Laden non è stato trovato. “La guerra non è finita”, puntualizza il presidente Bush. Coerente con quanto da lui stesso previsto all’indomani dell’attentato a Manhattan, quando affermò che sarebbe stata lunga e difficile quell’operazione planetaria di polizia che non esitò a chiamare guerra. Quali i nuovi fronti? Le nazioni che hanno concesso scopertamente ricovero e aiuti ai terroristi sono state additate senza reticenze e definite sbrigativamente “canaglie “. Le conosciamo bene. Ci sarà dunque davvero un seguito, con altri sbarchi di truppe e bombardamenti? La corda è tesa, e le forze navali ed aeree sono già presenti sul possibile teatro delle operazioni. Somalia ed Iraq, che hanno grossi conti sospesi con gli Stati Uniti sono nel mirino. Ma le condizioni non sono, o almeno non sembrano le stesse che per l’Afghanistan, perché, a differenza dei talebani, i loro governi si protestano estranei ai fatti che hanno dato origine alla guerra. Molto dipenderà dalle prove che i corpi speciali vanno raccogliendo. Ma anche dalla situazione internazionale, che non presenta più un quadro così unanimemente favorevole all’intervento americano come qualche mese fa. Nel complesso panorama planetario dei rapporti fra popoli e culture, si è certamente prodotto un solco più esteso e profondo di quanto si potesse immaginare. Ma al tempo stesso è cresciuta la coscienza di quanto sia urgente colmarlo e si sono moltiplicate le iniziative ai massimi livelli – ultimo il convegno interreligioso di Assisi – per dare un fondamento alla riconciliazione degli animi, a cominciare appunto dalle diverse fedi religiose. Un panorama, dunque, che apre a svariate considerazioni. Il terrorismo è certamente un male gravissimo, mortale, se non lo si estirpa. Ma non privo di una serie di cause scatenanti. Per combatterlo è stata iniziata una guerra senza quartiere, che dovrebbe agire come il bisturi su un tumore. E, come per quello, dai risultati incerti.Alla stregua di un organismo sottoposto a cure così drastiche, si producono reazioni anche violente. Soprattutto perché non pare siano state rimosse le cause prime del male. Sarebbe come consentire di continuare a fumare ad un malato di cancro ai polmoni. D’altro canto, fra quanti cercano di individuare ed eliminare proprio quelle cause, è sempre più grande il numero di chi opera convinto di dovere fare leva sulle parti sane dell’organismo per mettere in atto, in sostanza, le reazioni positive che può sviluppare. Ecco perché ci sembra che non si possa passare sotto silenzio l’indulgenza, o peggio la connivenza verso chi alimenta focolai di guerra e di tensioni che vengono lasciati accesi quasi nell’indifferenza generale. Comunque la si pensi al riguardo delle ragioni accampate dalle parti in causa, non si può immaginare che l’eventuale distanza da noi di questi focolai, o la nostra estraneità agli interessi che li hanno accesi, ci metta al riparo dalle conseguenze che produrranno. Il pianeta si è davvero così ristretto che nessuno più può dirsi totalmente estraneo a ciò che avviene in qualsiasi parte del mondo. Ecco perché le tensioni nel sub-continente indiano, quelle sui Grandi Laghi africani, o negli arcipelaghi del Sud-est asiatico, e a maggior ragione i gravissimi fatti che insanguinano ormai quotidianamente la Palestina, non ci possono lasciare indifferenti. Oggi dovremmo poter dire che siamo tutti palestinesi e contemporaneamente tutti israeliani, non per sospendere il giudizio su chi può avere le maggiori responsabilità nei fatti – siamo tutti inorriditi davanti all’affermazione di Sharon che si è rammaricato di non avere eliminato Arafat nell’82, come davanti al rinvenimento di una nave carica di armi diretta in Palestina – ma per impegnarci a rimuovere le cause di tanto odio. Convinti che non esistono barriere insuperabili. È questo l’invito che ci ostiniamo a ripetere, quasi su ogni numero e che si legge anche nella pagina qui a fianco, come in un manifesto che precisa le ragioni per cui si pubblica questa rivista, quello di andare oltre le barriere, puntando non su ciò che divide, ma su ciò che unisce.

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