Presepe siciliano

Un intero paese del Ragusano, Giarratana, rivive il Natale attraverso “quadri viventi” di intensa suggestione.
presepe siciliano

Con i suoi 3500 abitanti circa, Giarratana è fra i più piccoli centri della provincia di Ragusa. La sua struttura regolare, con vie ampie e dritte che dal piano risalgono il declivio del monte Lauro sopra il quale sorge, è opera d’una ricostruzione tenacemente voluta dal suo popolo dopo il terremoto dell’11 febbraio 1963, che, oltre a funestare tutta la Sicilia sud-orientale, distrusse l’abitato originario posto in posizione più elevata. Quanto ne resta è ‘u cuozzu, ovvero la cima del paese, il centro storico per eccellenza. Questo antico cuore, per lo più ridotto allo stato di rovina e pertanto disabitato e silenzioso come ogni luogo da cui la vita sembra sfuggita, ripalpita tuttavia in un preciso periodo dell’anno, motivo di festa e di orgoglio per i giarratanesi di oggi.

 

L’occasione è fornita dal Natale, che qui si usa onorare in maniera collettiva attraverso un originale "presepe vivente", giunto alla sua decima edizione. Ne sono attori gli stessi cittadini, riappropriatisi (almeno temporaneamente) di luoghi e tradizioni dei loro padri. Ed ecco, al calar della sera e al chiarore di lumi a petrolio e candele, animarsi vicoli, abitazioni e botteghe; ecco riprender vita tutto un mondo, quello fra la fine dell’Ottocento e i primi di questo secolo, tipicamente rurale e artigianale.

I visitatori, che accorrono a frotte dai paesi vicini e anche da più lontano, s’inoltrano a piccoli gruppi lungo un percorso prestabilito nel quale i "quadri viventi” hanno appropriata cornice: sono scene di vita quotidiana e di mestieri vari, realizzate con estrema naturalezza; rigorosa l’ambientazione, con costumi, utensili domestici e attrezzi di lavoro d’epoca. Qua si vedono artigiani intenti ad intrecciare canestri, a modellare vasi, a riparare recipienti di stagno o a scalpellare pietre: là donne che vagliano il grano, infornano pane, ricamano, tessono o torcono lenzuola al lavatoio. Nella sua tipica bottega un barbiere sta servendo un cliente, in un’altra si vendono commestibili d’ogni sorta in una profusione di colori e di odori. Nella masseria fervono i lavori contadineschi, dal piccolo pastore che munge una pecora alla contadinella impegnata a custodire una coppia di oche. E intanto animano l’osteria, ben provvista di salumi, formaggi e vini, avventori adulti e giovanissimi, seduti a tavoli rigorosamente distinti. E ancora uno squarcio di vita familiare: moglie e marito attorno al desco, mentre il figlio si scalda ad un braciere.

 

Scene rappresentate in silenzio e da ammirare in silenzio (quei chiaroscuri che richiamano suggestioni di pittori fiamminghi o intimità rurali alla Segantini). Da questo mondo di umili e di semplici si sprigiona "una sacralità che tocca il suo culmine nell’ultima scena. Ambientata proprio alla sommità dell’abitato fra i ruderi del palazzo dei marchesi Settimo, popolarmente ’u castieddu, al contrario delle precedenti la Natività è immobile, pura contemplazione. Scena che tutte le altre riassume. E infatti da quassù, nel buio notturno che l’avvolge, il paese è tutto un palpitare di fiammelle, quasi presenze di un’umanità che ha accolto il mistero del Dio fatto bambino: non più visibile dietro mura e tetti cadenti, ma ormai parte intima di chi ha compiuto questo percorso in ascesa.

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