Populismo o proposta del nuovo?

La proposta di una visione d’assieme dei Movimenti politici di opinione e di protesta nella recente storia del nostro Paese

Dopo aver approfondito la diaspora dei cattolici democratici, la tradizione della destra liberale e quella della sinistra, tra massimalismo e riformismo, affrontiamo la questione dei nuovi movimenti nella storia recente d’Italia.

Cosa significa “movimento politico”, come si può definire? La parola movimento, se usata in contesti legati agli spazi antropici e aggregativi, si caratterizza in modo evidente per il senso di azione e cambiamento che porta con sé. Il dizionario della lingua italiana Treccani, seguendone lo sviluppo semantico, alla sfumatura propria del linguaggio sociologico: un movimento è «qualsiasi fenomeno di aggregazione e mobilitazione di individui che, in seguito a mutamenti socioeconomici intervenuti, sviluppano la coscienza della loro identità di gruppo sociale e si impegnano attivamente per realizzare un mutamento della loro condizione o dello stesso sistema politico», aggiunge la specificazione politica, per la quale si dice che «il movimento si differenzia dal partito per il suo carattere di maggiore spontaneità e di minore livello di organizzazione, in grado quindi di coinvolgere il più ampio numero di persone nelle azioni e nelle decisioni politiche».

Nel contesto italiano, soprattutto a partire dagli anni ’60 del XX secolo, l’espressione viene cavalcata politicamente e ‘colorata’ di rosso, perché sono soprattutto organizzazioni e gruppi che si collocano a sinistra (con matrice operaia e/o studentesca), a pensarsi programmaticamente fuori dalle strutture dei partiti tradizionali, in contestazione rispetto a questi ultimi, considerati troppo prudenti di fronte alla rivoluzione da compiere (vedi la sinistra extra-parlamentare, in parte radicalizzatasi nella stagione degli anni di piombo).

L’Uomo Qualunque e il populismo come affermazione politica
La carica contestataria ed ‘antisistema’ di movimenti che si collocavano fuori dalla dinamica tradizionale dei partiti e dai luoghi istituzionali, frequentati con lo scopo di rivoluzionarne lo stile e i linguaggi, cominciò nella stessa epoca resistenziale e contemporaneamente rispetto alle forze politiche che puntavano ad aggregarsi per rifondare gli spazi del dialogo democratico.

Il Fronte dell’Uomo Qualunque, movimento fattosi partito per partecipare alle prime elezioni libere dopo il ventennio fascista e spentosi al principio degli anni ’50, ebbe tutte le caratteristiche di una novità votata alla rottura degli schemi: un leader alternativo, il giornalista e commediografo Guglielmo Giannini, presentatosi come l’uomo semplice e vicino al popolo stanco delle ritualità e delle menzogne della politica strutturata (partiti e sindacati); l’omologazione di fascismo e antifascismo, la mancanza di una vera distinzione tra destra e sinistra, come parte della stessa volontà di controllo da parte del personale politico organizzato, desideroso di auto-sostentarsi e lontano dai bisogni della gente (paradigmatica l’espressione: Si stava meglio quando si stava peggio); l’elogio della competenza tecnica al servizio della società civile, vista come l’alternativa rispetto ai ‘politici di professione’, che occupavano gli spazi del bene comune in nome di un assemblearismo che veniva piegato ad uso e consumo della “partitocrazia”, il potere dei partiti che aveva come unico scopo quello di auto-perpetuarsi.

Alcune esperienze di tipo movimentista
La leva potente, costituita dalla chiamata verso un popolo scontento della ‘politica politicante’, criticata in nome dell’efficienza, dell’onestà, del buonsenso (a volte più idealizzati che reali, ma sempre in voga), rimase una sorta di opzione latente, che si manifestava ogniqualvolta il sistema tradizionale (partiti, parlamento, burocrazia di stato) appariva incapace di affrontare una crisi avanzata, o sprovvisto degli strumenti necessari per rispondere alle esigenze del Paese, o ancora, e appare addirittura peggiore, insensibile verso le battaglie più vicine al cuore della gente comune, di una società civile orfana di rappresentanti all’altezza del proprio compito. In questo senso possono essere lette alcune esperienze coeve.

La vicenda del Partito radicale, per esempio, che cominciò in forma strutturata a metà degli anni ’50 come filiazione a sinistra del partito liberale, conobbe un’ascesa consistente sul finire degli anni ’70, dopo la vittoriosa battaglia referendaria a favore del divorzio e a conclusione del fallimento dei governi di solidarietà nazionale. La leadership di Pannella designò lo stile: disobbedienza civile; scioperi della fame; uso dello strumento referendario come volontà di azzerare la mediazione dei partiti e smascherare la loro incapacità di rappresentare i bisogni del popolo di elettori; una campagna di moralizzazione della politica che portasse all’emersione del falso puritanesimo della politica tradizionale (legalizzazione dell’uso controllato della droga; la legge sul fine vita; il riconoscimento delle coppie omosessuali).

E ancora la stagione dei cosiddetti girotondi, che in capo a Tangentopoli, al crollo della Prima Repubblica, ma anche in contestazione della ‘ricetta berlusconiana’ (a suo modo contestataria, populista), richiamava un popolo riformista, orfano di rappresentanza a sinistra e cresciuto nel mito della società civile intellettualmente attrezzata, ad un protagonismo di piazza, fatto da cittadini normali, interessati a riappropriarsi della politica come spazio condiviso. La rappresentanza del regista Moretti (artefice della famosa frase: D’Alema, dì qualcosa di sinistra!) e alcune pubblicazioni come Micromega di Flores D’Arcais, riportavano il senso di costruzione di un ceto medio a partire dal quale guadagnare consenso in nome di virtù civiche e buone pratiche.

Infine l’esperimento in corso dei 5 Stelle, che dalla carica carismatica di Grillo, dalla forza dirompente e liberatoria dei ‘V-Day’, dal know-how di rete e dalla visione futuristica di Casaleggio, ha potuto mettere in piedi un movimento che vuole farsi protagonista del passaggio da una casta oligarchica e corrotta, così viene presentata e sistematicamente derisa l’esperienza dei partiti tradizionali e dei poteri che l’accompagnano, verso una democrazia orizzontale e partecipata in tutti suoi momenti: lo slogan dell’uno vale uno, i meetup di dialogo partecipato, l’elogio alla normalità di candidati nati dalla società civile e con curriculum comuni, la selezione della classe dirigente attraverso il web.

Dalla contestazione alla proposta: la difficile arte del governare
Proprio il passaggio dalla contestazione alla proposta ha rappresentato e rappresenta il punto più delicato di tante esperienze citate, laddove al consolidarsi del consenso presso l’opinione pubblica spesso non è corrisposto un accresciuto senso di responsabilità.

Quali sono state le principali fragilità? Il transito dalla demagogia alla prassi di governo, che non può fare a meno del mix di expertise e competenza; la mancata accettazione dell’avversario politico, il dialogo col quale è imprescindibile nella ricerca del bene comune; la difficoltà nel passaggio da una leadership carismatica verso lo sviluppo di una classe dirigente capace di individuare programmi chiari, realistici e abilitata ad assumere i rischi delle proprie decisioni; la mancanza di un percorso di educazione politica della società civile, a cui non possono bastare gli slanci di spontaneità e i richiami alla moralità se non sono incardinati in un processo che sappia mostrare anche il lato impopolare e scomodo del governare.

 

Consigli di lettura

Marco Tarchi, Italia populista. Dal qualunquismo a Beppe Grillo, Il Mulino, Bologna, 2018

Luca Ricolfi, Sinistra e popolo. Il conflitto politico nell’era dei populismi, Longanesi, Milano, 2017

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