Popa Chubby: il blues non muore mai

È nato nel Bronx, e cresciuto nel Queens, quando questi quartieri non erano ancora diventati le nuove tane dell’intellighenzia new-yorkese in fuga da Manhattan. Popa Chubby è cresciuto ascoltando Jimi Hendrix, Sly and The Family Stone, l’Allman Brothers Band; è cresciuto in strada, fianco a fianco con certe bande di teppistelli tanto care al cinema statunitense: in quel crogiuolo di marginalità metropolitana, multirazzialità, e disagio, che ha sempre nutrito i sogni e le ribellioni della gioventù urbana occidentale. È in questo contesto che Popa ha maturato il proprio stile: un mix irresistibile di blues elettrico, southern-rock, soul e boogie, carico d’energia, passione e sudore. Suoni prettamente neri e sporchi, vecchi quanto l’America, ma riscoperti con un piglio decisamente moderno, non di rado contaminato dalla sub-cultura hip-hop e dal vetriolo del punk. Il tutto supportato da una tecnica chitarristica di prim’ordine. Sulle scene dai primi anni Novanta, il giovane Ted Horowitz cambia il nome in Popa Chubby e non fatica a farsi notare. Nel ’92 vince il premio come artista emergente dell’anno; è eclettico ed infaticabile (suona non meno di 200 sere l’anno nei locali più disparati), viene chiamato come supporter nei tour di mostri sacri come Chuck Berry e James Brown, collabora con un idolo del punk newyorkese come Richard Hell, fonda addirittura una proprio etichetta discografica. Il suo debutto è del ’93, con Gas Money, e due anni più tardi, grazie al contratto con una major come la Sony che gli pubblica il successivo Booty and the beast, è ormai un artista di culto a livello mondiale. Da poco è arrivato sui mercati il suo ultimo al- bum. Si intitola Stealing the devil’s guitar, rubando la chitarra del diavolo: quattordici frammenti che catturano e sintetizzano perfettamente il suo approccio alla materia: profondo rispetto per i maestri del passato, ma assoluta aderenza alla realtà sociale e musicale contemporanea. A vederlo così, con la sua stazza da camionista over-size, i tatuaggi stampati ovunque, e le pose da finto duro che fan bella mostra nel pamphlet interno, lo diresti un qualunque bullo di periferia. Poi lo senti suonare e cantare (o rappare…), e capisci che Popa è uno tosto, uno che con le sue canzoni sa raccontare l’America dei bassifondi senza troppi fronzoli. Come per i vecchi bluesmen anche per Popa le canzoni sono strumento di indiretta denuncia sociale e di esorcismo dei propri malesseri esistenziali, e questo Stealing the devil’s guitar sembra fotografare l’altra faccia del Sogno Americano, o per meglio dire quell’America che ha rinunciato a sognare da un pezzo, ma che ancora non ha smesso di cercare una propria impervia redenzione. CD NOVITA’ Mew And the glass handed Kites (Sony – Bmg) Secondo Bono Vox e The Edge sono proprio questi quattro ragazzotti danesi gli eredi più degni degli U2. Mah… Questo loro quarto album è di fatto un’ambiziosa suite rockettara a base di elettronica, schitarrate, e voci falsettate. Energia vagamente progressive nei suoni, inquieta e visionaria nei testi. Da tener d’occhio. Pearl Jam Pearl Jam (Talking Elephant Records) Vedder e soci contendono ai Red Hot Chili Peppers lo scettro di rock-band americana per eccellenza. In questo atteso ritorno discografico (costato quasi quattro anni di lavoro) ruggiscono e sussurrano come ai tempi del grunge primigenio di cui furono profeti amatissimi. Ma con dentro tutta la rabbia e la disillusione dell’America post 11 settembre.

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