Pompei e le “case sul pendio”

Un restauro esemplare, nell’ambito del Grande Progetto Pompei, e il libro che lo documenta

Torno a Pompei per costatare di persona i progressi del Grande Progetto di restauro avviato nel 2013, dopo i clamorosi precedenti crolli, con finanziamento dell’Unione Europea. Puntuali e incoraggianti gli aggiornamenti forniti dal sito del Parco Archeologico: quasi non passa mese senza che vengano segnalate la riapertura di qualche domus o le scoperte effettuate dai team multidisciplinari che studiano l’antica città vesuviana. Tra i risultati più notevoli di questa rinascita che ha visto impegnati archeologi, architetti, ingegneri e restauratori, è il recupero, dopo due anni di intenso lavoro, di un elegante quartiere residenziale sviluppatosi, a partire dal II secolo a. C., lungo il fronte meridionale del pianoro lavico su cui sorge la città, e che comprende anche tre edifici pubblici affacciati sul lato Sud del foro. Si tratta delle cosiddette “case sul pendio” che, articolate su più livelli e sovrapposte con loggiati, terrazze panoramiche e giardini pensili alle fortificazioni cittadine, costituiscono per la loro atipicità rispetto alla casa ad atrio uno dei più singolari aspetti dell’edilizia pompeiana.

Con l’aspettativa e la curiosità della prima volta mi accingo alla visita di quest’area prestigiosa a ridosso del cuore civile, religioso e commerciale di Pompei, che ha richiesto un cantiere complessivo di oltre 4 mila metri quadri.

Il primo complesso, noto come Case di Championnet 1 e 2 (dal nome del generale che nel periodo della presenza francese a Napoli incrementò le ricerche a Pompei), fu parzialmente scavato alla fine del Settecento nel settore centrale e solo negli anni Trenta del secolo scorso in quello meridionale. Sorto su un precedente insediamento di epoca arcaica (VI secolo a. C.) e addossato alle ormai non più funzionali mura urbiche, esso subì nel corso del tempo numerose trasformazioni. Al momento della catastrofe vesuviana i lavori erano ancora in corso.

Anche l’adiacente Casa dei Mosaici Geometrici attraversò più fasi edilizie, di cui si sono rinvenute tracce nelle indagini preliminari al suo recupero. Questo secondo grandioso complesso con due piani fuori terra e tre livelli ipogei ha come fulcro un ampio peristilio con giardino chiuso, caratterizzato dalla presenza di una vasca per la piscicoltura, da cui l’appellativo di Cortile delle Murene. L’impreziosiscono i bellissimi pavimenti in tarsie marmoree e a tessere di mosaico da cui la dimora ha preso nome. Dal triclinio invernale proviene l’emblema che raffigura una scena marina con pesci e la lotta tra un polpo e una aragosta, ora nel Museo archeologico di Napoli assieme all’esemplare simile rinvenuto nella Casa del Fauno.

Lungo l’itinerario di visita, che comprende i suggestivi ambienti sotterranei adibiti a magazzini, cucina e panificio, ho modo di apprezzare le scale e le passerelle in acciaio zincato che agevolano l’accessibilità e, sovrastando i pavimenti, evitano di usurarli. Come pure, presso il Cortile delle Murene, la trasformazione di una vecchia e degradata cabina dell’Enel in un piccolo spazio espositivo che ospita diversi reperti emersi dagli scavi antichi e recenti delle domus.

Documenta la storia edilizia e la rinascita esemplare di queste “case sul pendio” il volume edito da arte’m Restauri a Pompei, il cui corredo fotografico consente di ripercorrere le varie fasi del restauro e consolidamento di murature, rivestimenti parietali e pavimentali, e del montaggio delle coperture, indispensabili per proteggere le antiche strutture e i relativi apparati decorativi.

Proprio su queste ultime, in quanto l’elemento più interessante del progetto, si sofferma l’autore di uno dei contributi, il direttore generale del Parco Archeologico di Pompei prof. Massimo Osanna. Realizzate in carpenteria metallica rivestita in lastre di Corian (un composto di resina acrilica e alluminio), esse “poggiano” senza eccessivi sostegni sulle murature opportunamente consolidate, e ridando leggibilità e alternanza di chiaroscuri all’articolazione di ambienti rimasti a cielo aperto per duecent’anni, ne restituiscono l’intimità. Questo innovativo modello di copertura “leggera” ma resistente e ben inserita nel paesaggio urbano per il suo colore neutro potrà essere esteso a tutte le domus della città antica.

È ora di andare. Prima però, dall’alto delle terrazze, mi godo ancora una volta il superbo panorama che dalla catena dei Monti Lattari si estende fino al golfo di Napoli. E azzerando i moderni caseggiati che hanno cementificato la piana del Sarno, cerco di immaginare cosa vedevano gli abitanti di duemila anni fa prima degli sconvolgimenti geofisici provocati dall’eruzione: una fertilissima distesa coltivata punteggiata di fattorie e ville, attraversata dalla strada verso Stabia e dal nastro sinuoso del Sarno: fiume ancora incontaminato che, dopo aver lambito Pompei, cercava la sua foce nel golfo presso le saline di Ercole, dopo aver dato origine ad una vasta laguna navigabile. Proprio lì, a circa un chilometro in linea d’aria da dove mi trovo, era il borgo suburbano pompeiano con le sue installazioni portuali e i suoi magazzini, il suo movimento di imbarcazioni fluviali e marittime. E dove, se non lì, si lavorava quel rinomato garum (salsa di pesce) che serviva non solo per i bisogni cittadini ma veniva anche esportato? È dunque la visione di una Pompei non più chiusa nel suo reticolo urbano, ma aperta verso l’esterno, verso i traffici oltremarini, quella che mi viene offerta dalle “case sul pendio”.

 

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