Politica per pochi?

In un periodo elettorale come quello che stiamo vivendo una delle incognite riguarda la percentuale cittadini che si recheranno a votare. linea di tendenza all’interno dei paesi democratici va costantemente – nonostante sporadici fenomeni contrari verso un abbassamento della partecipazione. Se si pensa a quante lotte sacrifici sia costata, nella storia, la conquista del suffragio universale, appare come un paradosso la rinuncia di molti al diritto-dovere di votare. Sfiducia nella politica, senso di impotenza, delusione: su questi sentimenti diffusi fra i cittadini si è detto scritto molto. L’espressione più diffusa fra chi ha rinunciato a partecipare è che tanto, non cambia nulla. L’idea che, indipendentemente dal voto popolare, l’esercizio del potere rimanga comunque appannaggio di una stretta minoranza, non è solo espressione di una delusione popolare, ma costituisce anche una tradizione di pensiero che si presenta come scientifico. Su questo argomento abbiamo posto alcune domande al prof. Alberto Lo Presti, che se ne è occupato in un suo recente libro, La teoria delle élites fra filosofia della storia e scienza politica (edito da Nova Millennium Romae). Il prof. Lo Presti insegna Storia del pensiero contemporaneo all’Università del Molise e Sociologia generale alla Pontificia Università San Tommaso (Angelicum) di Roma. Prof. Lo Presti, quando nasce la teoria delle élites? Il concetto di élites è elaborato soprattutto a partire dagli inizi del XX secolo. La democratizzazione dei regimi politici porta nuovi protagonisti sulla scena: le masse. Le classi liberalborghesi ne hanno paura, perché sanno che quando le masse si muovono causano grandi sconvolgimenti. Di fronte a questi fenomeni, la teoria delle élites sottolinea che le aspettative di partecipazione al potere da parte delle masse sono illusorie: se si abbandonano le visioni ideologiche o idealistiche, e si affronta la questione in modo realistico e scientifico, si deve prendere atto che la politica è sempre stata fatta in un solo modo: e cioè da una piccola minoranza che governa sulla maggioranza . La teoria delle élites esprime in sostanza la prospettiva di un gruppo dirigente che si sente minacciato? Sì. C’è però anche un’altra componente: è il momento in cui la scienza politica fa di tutto per mostrare quanto fosse diversa dalla filosofia politica. Per questo, scende sul terreno del nudo dato storico e sociologico, che conferma, appunto, l’esistenza di un ceto dirigente difficilmente amovibile. I teorici delle élites chiamano filosofia politica anche i grandi sistemi ideologici cui le masse cominciano a riferirsi; sottolineano la grande facilità con cui si può manipolare le masse: la massa non possiede una razionalità propria, tanto che basta un leader provvisto di poche idee e una forte determinazione per farle fare qualunque cosa. Tra i primi teorici delle élites vi sono Mosca, Pareto, Michels: anche degli italiani, perché certamente la nostra storia dopo l’unificazione contribuisce al sorgere di questa visione realista e pessimista. La teoria delle élites riguarda solo il nostro passato oppure è viva anche oggi? C’è anche oggi chi teorizza un modo di vedere simile. La teoria delle élites, oggi, confluisce all’interno di quella visione più ampia che viene chiamata teoria del conflitto, e che vede le élites continuare a sussistere, ma all’interno del gioco democratico: esse sono, oggi, dei gruppi che competono per il potere, scelti attraverso il voto dei cittadini. Dunque, si tratta di élites democratiche. È evidente, però, che questa visione della democrazia, nella quale il cittadino ha solo il compito di scegliere chi governa, non è affatto partecipativa. Esatto, siamo ancora all’interno di una democrazia liberale nella quale il popolo è chiamato a scegliere i capi; i quali, per mestiere, fanno i capi. Non è questa, a mio avviso, una concezione piena della democrazia. C’è invece un’altra visione della democrazia, che favorisce la maturazione del cittadino, la sua vitalità politica, la consapevolezza che il suo bene non si esaurisce nella dimensione individuale e privata ma che si estende alla comunità: è evidente che questo cittadino non si accontenta di andare ogni tanto all’appuntamento elettorale, ma vuole vivere la democrazia giorno per giorno. Ci sono pensatori che hanno sviluppato questa diversa prospettiva e che possono dare un sostegno teorico ad una cittadinanza più attiva? Certamente ci sono pensatori che rifiutano di considerare la politica semplicemente come il luogo del conflitto. Fra questi, vorrei soffermarmi su P. A. Sorokin. Sociologo russo emigrato negli Stati Uniti, conduce una riflessione davvero originale sul fondamento del sociale e della comunità. Non era certamente un pensatore marginale: basti pensare che ha guidato l’Associazione di sociologia americana prima di Parsons. Per quale ragione, si chiede Sorokin, l’uomo non conduce una vita solitaria o di piccoli gruppi, come fanno molte specie animali, ma preferisce invece costruire la comunità e l’ordine civile? Il motivo sta in una energia che possiedono tutti gli esseri umani, e che costituisce un vero e proprio dato antropologico: l’amore altruistico. Sorokin, con gli strumenti della sociologia, condusse una grande ricerca sulle figure che meglio hanno espresso l’amore altruistico: studiò le biografie dei santi cristiani, ma anche dei grandi testimoni di altre religioni, e anche di coloro che hanno agito in base ad un loro credo civile. Sorokin fa vedere l’importanza sociale, l’effetto di progresso, dell’azione fondata sull’amore altruistico. Questa prospettiva costituisce un’alternativa al paradigma del conflitto e all’idea, fra le più accreditate all’interno della scienza politica, che esso inevitabile; e non è vero neppure (altra idea oggi molto diffusa) che il potere politico nasca sempre attraverso un atto di supremazia di qualcuno su qualcun altro. Non è vero, allora, che, per essere realisti, si debba per forza di cose essere pessimisti, dato che la realtà non presenta solo una faccia negativa? Proprio così. La prospettiva del conflitto dovuto alla difesa degli interessi non riesce a spiegare tantissimi fenomeni della storia, nella quale abbiamo avuto una miriade di testimoni che, per un ideale politico, hanno pagato prezzi personali a volte esorbitanti: carcere, esilio, o addirittura hanno dato la vita. Potremmo partire dall’esempio di Tommaso Moro; ma non occorre andare così lontano: pensiamo al ruolo che hanno avuto Gandhi, Martin Luther King, Mandela, Havel; o, ancora più recenti, pensiamo all’israeliano Rabin, al rappresentante dell’Onu Vieira de Mello, al premier svedese Olof Palme. Dunque il paradigma alternativo al conflitto ha già una sua configurazione e una sua storia, nelle vicende della liberazione di interi popoli, della conquista dell’emancipazione di categorie sociali, della difesa di diritti umani? Sì. A partire da visioni alternative a quella del conflitto, noi possiamo fondare l’idea che la dimensione politica dell’agire sociale è quella che porta un cittadino ad occuparsi della causa e degli obiettivi della propria comunità. Proprio per dare una spiegazione realistica alla dimensione politica, dobbiamo ammettere che esiste nell’uomo la spinta ad occuparsi non solo del bene proprio, ma a quello degli altri e dell’intera comunità: i grandi cambiamenti della storia avvengono ad opera di persone che interpretano il proprio impegno politico come un donarsi disinteressato ad una causa, come il lasciarsi portare fino in fondo alla propria scelta; mentre, del politico che fa semplicemente i propri interessi, si perde sempre memoria. Queste persone si sono impegnate in politica non per difendere un limitato interesse, ma per seguire una vocazione: che ruolo ha la vocazione politica all’interno del nuovo paradigma? È fondamentale. Nella vocazione politica o sociale si vede che la propria dimensione personale è coinvolta e completata dal destino della propriacomunità, del proprio popolo, o dell’intera famiglia umana; ci si sente chiamati ad essere costruttori di qualcosa di più grande di noi stessi. E come tutte le vocazioni, ha bisogno di essere custodita e formata con l’aiuto della comunità: e questa è un’uscita radicale dalla prospettiva delle élites. La vocazione non è una mera inclinazione, o una delle possibili scelte che la persona può fare: è una spinta inarrestabile che la persona avverte, un dettato del disegno che sente su di sé e che coinvolge gli altri. E questi altri sono avvertiti come fratelli, e si sente la spinta ad occuparsi di loro proprio in quanto fratelli. Io direi che la fraternità come legame fra gli uomini, uomini, la sua percezione, è preliminare alla vocazione politica. Per restare sul piano del realismo, lo studioso deve prendere atto che, oggi, questa fraternità è, in una certa misura, già in atto. Certamente. Oltre agli esempi dei grandi testimoni, vediamo che nell’esperienza quotidiana del Movimento politico per l’unità, ad esempio, parlamentari di diversi schieramenti lavorano insieme, pur rimanendo fedeli ciascuno alla propria appartenenza: c’è la fraternità vissuta, sia a livello nazionale, sia a livello internazionale; pensiamo soltanto alle grandi manifestazioni dei mille sindaci europei a Innsbruck nel 2001, o al recente incontro dei Movimenti ecclesiali a Stoccarda, che ha avuto anche una forte dimensione politica. In questa visione il cittadino non può sentirsi soddisfatto soltanto dal depositare la scheda al momento delle elezioni. Nel Movimento politico per l’unità il cittadino è consapevole della propria responsabilità: sa che non ha ceduto la propria sovranità attraverso il voto, e che deve mantenere un rapporto continuo con l’eletto: c’è bisogno di sostenerlo, di aiutarlo, di controllarlo e metterlo al corrente di ciò che emerge nella società. La politica non può essere autoreferenziale, ma deve stare sempre sotto i riflettori, nel senso che dobbiamo mantenere un percorso di reciprocità fra politici e cittadini. Per il cittadino, dopo avere passato una giornata alle prese con il lavoro, la famiglia, le varie incombenze quotidiane, potrebbe sembrare davvero troppo doversi occupare anche di politica. Ma disinteressarsene provoca fratture sociali e veri propri scompensi nel funzionamento della vita politica; l’occuparsi di politica è parte integrante della dimensione della cittadinanza e deve diventare un elemento quotidiano nella vita dei cittadini. Il cittadino scoprirà così che lavorerà meglio, che anche la famiglia avrà una condotta più funzionale; che tutti gli altri aspetti della sua vita, insomma, saranno più valorizzati.

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