Polemiche e problemi veri

Il problema-giustizia è sempre tenuto in caldo nel nostro paese, ma non sempre per essere visto e affrontato nella sua oggettività e gravità, ed essere conseguentemente risolto nell’interesse dei cittadini e per il bene della convivenza sociale. Ne abbiamo un esempio nei due ultimi disegni di legge, presentati dal governo, con cui si mira a vietare ai magistrati di partecipare a riunioni pubbliche di natura politica e ad imporre ai giudici di interpretare e applicare la legge in senso strettamente letterale. Altro esempio è lo sciopero attuato dagli avvocati per protestare contro il ritardo nell’attuare la cosiddetta “separazione delle carriere” dei giudici e dei magistrati del pubblico ministero: in effetti sono mossi da finalità politiche o vendicative, come il ridurre sempre di più il ruolo istituzionale della magistratura; o dalla difesa di interessi di categoria; piuttosto che dalla volontà di considerare e risolvere i gravi problemi della giustizia. Non entro a fondo nel merito dei suddetti progetti di legge; mi limito a rilevare che la “separazione delle carriere” inciderebbe gravemente sulla indipendenza della magistratura nel suo insieme e porterebbe a ridisegnare tutto l’impianto istituzionale dello stato. Quanto agli altri due provvedimenti comportano un controllo sui giudici che sarebbe innegabilmente politico. E, poi, da chi i giudici dovrebbero essere controllati? E, quanto alla motivazione delle loro sentenze, non esiste già un rigoroso controllo nella sede propria, che è quella giurisdizionale? Né può tacersi a quest’ultimo riguardo che le sentenze dei giudici sono inoltre sottoposte ad un accurato esame critico sulle riviste di dottrina e di giurisprudenza, e non risulta finora che siano segnalate vistose deviazioni nella interpretazione della legge; anzi, se qualcosa si può lamentare oggi, è una troppo formale applicazione della legge medesima, mentre occorre far posto nell’attività giurisdizionale, accanto alla legge, ai grandi princìpi del diritto. Esiste invece, come dicevo, una grave situazione della giustizia Italia, che merita di essere attentamente studiata e affrontata. È noto che all’inizio di ogni anno ci sono le relazioni sullo stato della giustizia; prima fra tutte quella del procuratore generale presso la Corte di Cassazione, letta in una solenne adunanza davanti a tutte le massime cariche dello stato. Va rilevato che in tali discorsi vengono fatti espliciti inviti alla classe politica di intervenire con adeguati provvedimenti e si indicano anche possibili strade da seguire. Circa le cause della lunga durata delle cause civili e dei procedimenti penali, indico molto in sintesi, per la giustizia civile il fatto che i cittadini ricorrono facilmente al giudice per controversie di ogni genere, omettendo le strade per una civile riappacificazione, mentre l’animosità e la diffidenza dei litiganti rendono più tormentato l’iter processuale e difficoltosa l’opera dei giudici; per la giustizia penale c’è l’uso strumentale delle regole processuali per ritardare la decisione finale, mentre il processo è appesantito dal fatto che attraversa molte fasi e presenta vistose incoerenze. Quali rimedi si possono proporre per dare sveltezza ai processi ed efficacia alla giustizia? Per quanto riguarda la giustizia civile, al fine di diminuire il numero della cause occorrerebbe, anzitutto, che i cittadini fossero aiutati a ricorrere a forme di pacificazione oppure di risoluzione delle controversie, alternative a quella giudiziaria; e che tutti gli operatori (avvocati, magistrati, ecc.) adottassero nel processo comportamenti corretti e responsabili, miranti effettivamente alla conclusione dello stesso secondo le ragioni di giustizia. Per quanto riguarda la giustizia penale, innanzitutto occorre snellire il processo. Questo oggi è diviso in due tronconi, la fase delle indagini e la fase del giudizio, che sono fortemente scollegate tra loro. Per esempio, le prove raccolte durante le indagini (testimonianze, consulenze tecniche, ecc.) non valgono per il giudizio e perciò devono essere ripetute nel dibattimento, con possibili contraddittorietà di conclusioni e notevole allungamento dei tempi del processo. Va, poi, rivisto il sistema delle impugnazioni, limitandole a quelle necessarie ai fini di giustizia: capita, infatti, che l’impugnazione avvenga al solo atscopo di rallentare il processo. In secondo luogo, occorre sfrondare il processo delle garanzie processuali che non corrispondono ad un reale diritto di difesa e perciò possono essere usate per fini soltanto dilatori. In ultimo, sempre riguardo alla giustizia penale, è opportuno affrontare il problema dell’esercizio dell’azione penale. Oggi, per dettato della Costituzione l’azione penale è obbligatoria, vale a dire per tutti i delitti il Pubblico ministero, unico organo dello stato che ha tale potere-dovere, ha l’obbligo di iniziare il procedimento penale per raccogliere gli elementi di prova che deve sottoporre al giudice. Dato l’enorme numero dei reati e quindi dei processi, da certe parti politiche si propone di abolire il principio della obbligatorietà dell’azione penale, volendo che siano il Parlamento o il governo a stabilire i reati per i quali bisogna iniziare prioritariamente i processi. Questa proposta viene osteggiata – e neanch’io la condivido -, sia perché va contro il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sia perché risponde ad esigenze di difesa pubblica e privata che tutti i reati siano perseguiti. Tuttavia, il problema di un razionale esercizio dell’azione penale esiste, non potendo essere puramente arbitraria la decisione di iniziare un processo o un altro. Anche questo problema va esaminato seriamente. Forse, tra l’altro, si può tenere conto delle forme di criminalità radicate sul territorio e dare una risposta unitaria alle stesse, in funzione pure della tutela delle vittime dei reati. Per concludere, si afferma che la società di oggi è una società complessa; anche la funzione giustizia, sia nel campo civile che in quello penale, deve tenere conto della domanda di giustizia dei cittadini e della collettività.

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