Più politica che arte

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Anche se si trovavano sulla Costa Azzurra, con la mente e col cuore i giurati della 57ª edizione del Festival di Cannes stavano a Baghdad. Non si spiega diversamente la Palma d’oro a Fahrenheit 9/11 di Michael Moore. Un premio che ha un doppio significato, artistico ma soprattutto politico, assegnato da un Paese europeo come la Francia che ha assunto posizioni fortemente critiche nei confronti dell’intervento americano in Iraq. È la prima volta dal 1956, quando trionfò Jacques Costeau con Il mondo del silenzio, che un documentario sbaraglia la massiccia concorrenza della fiction e il film di Michael Moore la dice lunga sul messaggio che la giuria (presieduta da un altro americano, il Quentin Tarantino di Pulp Fiction e di Kill Bill) ha inteso rivolgere a nuora perché suocera intenda. Fahrenheit 9/11, più sarcastico che eversivo, è un atto d’accusa fra lo scandalistico e il provocatorio che denuncia senza peli sulla lingua gli oscuri rapporti d’affari tra la famiglia Bush e Osama Bin Laden. Un’ambigua vicenda che ricorda la storia dei ladri di Pisa, un regolamento di conti raccontato con tanta spavalda e sfrontata sicurezza che ha finito per coinvolgere tutti. Giurati, critici, pubblico. Il Gran Premio, equivalente di una Palma n. 2, è andato a Old Boy del coreano Park Chan-Wook (un Tarantino dell’Estremo Oriente), storia di una spietata vendetta ispirata a un fumetto giapponese di crudele efferatezza, dove uno stile di raffinata eleganza convive con la violenza più brutale. Ancora l’Asia protagonista con il Premio della Giuria, ovvero la Palma n. 3, dove Tropical malady del thailandese Apichatpong Weerasethakul, pretenzioso e sopravvalutato esercizio di stile che racconta l’iniziazione di un soldato nella giungla, si è diviso la posta con The Ladykillers dei fratelli Coen, remake del famoso La signora omicidi, dove la bravura di Tom Hanks rende omaggio al luciferino umorismo nero di Alec Guinness. Il premio per la miglior regia è stato attribuito a Tony Gatlif di Exils, film elegiaco e zingaresco, dove il mito del viaggio e la musica si intrecciano in una comune ricerca di identità, mentre quello destinato alla miglior sceneggiatura è toccato a Comme une image di Agnès Jaoui e Jean P. Bacri, commedia intelligente e spiritosa che racconta la difficile convivenza con tutto ciò che la circonda da parte di una ragazza ossessionata dall’obesità. Oltre che per la supremazia del cinema asiatico (confermata dal premio al miglior attore, il giapponese Yagira Yuuya interprete di Nobody Knows di H. Kore-Eda, e da quello alla miglior attrice, la cinese Maggie Cheung protagonista di Clean di Olivier Assayas), questa 57ª edizione sarà ricordata anche per l’equilibrio fra arte e mercato, tra affari e cultura (8.500 partecipanti e fatturato aumentato del 20 per cento), per la protesta degli intermittents (i precari dello spettacolo), per il cinema italiano ridotto a lumicino (un solo film in concorso, Le conseguenze dell’amore di Paolo Sorrentino, dimostra che siamo diventati il parente povero, emarginato e snobbato da tutti), e per il tiro al bersaglio contro la scuola cattolica, additata come fonte di ogni perversione. Da La mala educaciòn di Pedro Almodòvar a Old Boy di Park Chan-Wook.

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