Pfas, 3.890 morti in più nella zona rossa

Uno studio dell'Università di Padova conferma per la prima volta che la mortalità nelle zone contaminate aumenta sia in generale, che in particolare per patologie cardiovascolari e tumori
Pfas
ANSA/ GREENPEACE ITALY

Arriva un’ulteriore conferma, se mai ce ne fosse stato bisogno, della pericolosità delle sostanze perfluoralchiliche (Pfas) per la salute umana; e in particolare di come lo siano state e lo siano in Veneto. Un articolo pubblicato ad aprile sulla rivista scientifica Environmental Health, a firma di un gruppo di ricerca dell’Università di Padova guidato dal prof. Annibale Biggeri, ha infatti indagato la mortalità in eccesso nella cosiddetta “zona rossa” negli anni tra il 1980 e il 2018 (limite temporale, si legge nella ricerca, dovuto alla disponibilità dei dati completi da parte dell’Istat). Oltre alla mortalità generale, è stata analizzata quella nello specifico per cancro e malattie cardiovascolari; e quella dal 1985 in poi, anno in cui si presume sia iniziata la contaminazione più ampia dell’acqua nella zona.

Secondo lo studio, nell’area si sono registrati nell’arco di tempo considerato 51.621 morti, contro le 47.731 che ci si sarebbe aspettati in base alla mortalità media (quindi 3890 in più); e un incremento in particolare nei morti da malattie cardiovascolari e cancro. Tenendo conto poi che i danni da esposizione a Pfas vanno aumentando all’aumentare del tempo in cui un individuo vi rimane esposto, è interessante notare come l’eccesso di mortalità, in particolare per il cancro, sia andato crescendo nel tempo; e colpendo in particolare i giovani, esposti fin dalla più tenera età agli effetti negativi di queste sostanze. Tristemente ironico in questo senso il fatto che le donne che hanno partorito risultino meno “contaminate” dagli Pfas e quindi meno colpite da queste patologie: la cosa si spiegherebbe infatti con l’accumulo di sostanze nella placenta (che con il parto viene espulsa) e con il latte materno, che sono però proprio le ragioni per cui i nati dopo la contaminazione massiva risultano avere in corpo concentrazioni di Pfas molto più alte dei loro genitori con conseguenti patologie.

I ricercatori concludono dunque che, mentre la correlazione tra esposizione a Pfas e tumori ai reni e ai testicoli era già stata dimostrata, «questo è il primo studio che dimostra formalmente una correlazione tra Pfas e mortalità per malattie cardiovascolari».

«Queste drammatiche evidenze scientifiche sottolineano che non esistono più scuse per ritardare ulteriormente l’avvio dello Studio di Coorte, deliberato dalla Regione del Veneto già nel 2016, ma mai iniziato – affermano in un comunicato le Mamme No Pfas -. E no, il Piano di Sorveglianza Sanitaria non basta perché ha metodi e obiettivi diversi. In particolare lo Studio di Coorte è fondamentale in questo contesto per diverse ragioni tra cui l’analisi a lungo termine, l’identificazione dei fattori di rischio, il delineamento di informazioni per le politiche di salute pubblica. Pertanto, nonostante il Piano di Sorveglianza Sanitaria fornisca informazioni preziose sulla salute della popolazione esposta, lo Studio di Coorte è un complemento indispensabile per comprendere a fondo l’impatto della contaminazione da Pfas sulla salute umana. […] Questo nuovo studio conferma ulteriormente il livello di tossicità di queste sostanze, che ormai sono presenti ovunque, dall’aria, all’acqua, a quello che mangiamo. Pertanto sosteniamo con forza la necessità di bandire la produzione e l’utilizzo delle Pfas, come intera classe si sostanze, a livello globale».

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