Pezzotta. E’ il momento di cambiare

Èsoddisfatto degli ultimi sei mesi, dopo aver lasciato la guida della Cisl. Continuo ad essere un iscritto al mio sindacato. Un sindacato che ha permesso ad un semplice operaio tessile di diventare il segretario generale. Sono contento di questo periodo – afferma Savino Pezzotta -. Sto facendo tanti incontri e una bella serie di esperienze. Magari è entrato pure in contatto con un’Italia che prima non aveva avuto modo di intercettare? No, questo no, perché sono stato sempre legato alla dimensione del sociale. Penso, quindi, di conoscere le situazioni in cui vive la gente in Italia. Però, è vero che mi è capitato di fare alcune esperienze significative. Quali, ad esempio? Soprattutto gli incontri con i giovani. Ricordo sempre con grande bellezza un incontro di tre giorni con i giovani della Fuci, la federazione degli universitari cattolici, a Camaldoli, e con i giovani della Gioc, la gioventù operaia cattolica, in Val d’Aosta. Perché dice con grande bellezza? Mi sembra il termine più corretto, perché ho potuto vedere una realtà giovanile un po’ diversa da quella che ci dipingono. Anzi. Ragazzi pieni di motivazioni, di idealità, di voglia di fare e di impegno, e, visto che erano cristiani, anche la tensione a testimoniare la propria fede con serenità e chiarezza, senza voler imporre nulla a nessuno ma dicendo la gioia del credere e dell’amare. Grigio il mondo degli adulti? Non direi. Nei giri che sto facendo un po’ dovunque, anche nelle diocesi, ho incontrato un popolo, direi minuto, quello a cui la politica non guarda con attenzione, che invece è di una bellezza e di un’eticità grandissime, che ha voglia di discutere, di partecipare, che non ama la polemica ma il costruire, che cerca, anche da un punto vista cristiano, di rendere bella e chiara la vita in cui crede, arricchita dalla disponibilità verso gli altri. Quest’immersione più profonda nel sociale mi ha dato una visone più ampia e più puntuale della dimensione umana, così fondativa, del Paese. E come la mettiamo sul versante produttivo? I dati recenti segnalano un incremento dell’indice della produzione industriale dell’1,9 per cento rispetto allo scorso anno. È un risultato che fa sperare? Il risultato in sé è buono, ma non va dimenticato che è un dato di tipo congiunturale. Segna, cioè, una ripresa dell’economia italiana, favorita dalla crescita dell’economia mondiale, dovuta anche al calo del prezzo del petrolio. Insomma, c’è una congiuntura favorevole che consente al nostro sistema produttivo di stare sul mercato con dinamicità. Ma non c’è da stare tranquilli. In questi anni di stagnazione sono state prodotte innovazioni, si è aperto lo sguardo su mercati che fino all’altro ieri non conoscevamo. C’è dinamismo. Il problema è che restano aperti i problemi strutturali della nostra economia, per cui basta un rallentamento dell’economia americana o una ripresa dei prezzi delle risorse energetiche e il nostro Paese riprecipita dentro fenomeni di stagnazione. Per di più, il Mezzogiorno non sta correndo, alcuni settori produttivi del manifatturiero fanno ancora fatica a reggere il livello di competitività, il sistema occupazionale è abbastanza statico, il capitale umano ha ancora limiti e difetti di un anno fa. Per tali motivi, dico che questo è il momento di cambiare, di fare riforme profonde. Anche per i 7,5 milioni di italiani in situazione di povertà relativa. Non ci sono variazioni rispetto all’anno precedente. Soddisfatto di questa stabilità? No, anche perché nel nostro Paese sono aumentate le disuguaglianze. Ci sono quelli che sono rimasti poveri e quelli che sono diventati troppo ricchi. S’è allargata la forbice, una tendenza non solo italiana, ma mondiale. In una fase in cui l’economia mondiale cresce complessivamente, aumentano in contemporanea le disuguaglianze nel mondo – tra Paesi ricchi e Paesi poveri -, ma crescono anche le disuguaglianze all’interno degli stessi Paesi ricchi. Arduo venirne fuori in Italia? La prima operazione è di uscire da quell’onda un po’ pauperistica, secondo la quale stiamo tutti male. No, in Italia c’è chi sta bene e c’è chi sta male. E se in Italia incominciamo a dire chi sono quelli che stanno male e facciamo politiche differenziate tra chi sta bene e chi sta male, riusciremo anche a risolvere i problemi. Perché fare parti quasi uguali tra diseguali è un’ingiustizia. In Italia non è stato possibile sinora dar vita ad un vasto movimento contro la precarietà occupazionale come avvenuto un po’ in Francia. Qual è stato l’ostacolo maggiore? La ribellione dei ragazzi francesi è un segnale di un malessere che attraversa tutta la gioventù europea e chiede conto delle promesse fatte. Noi abbiamo detto a tutti di studiare e poi li mandiamo ai call-center. Non possiamo fare comparazioni tra i due Paesi. Gli elementi di precarietà in Italia sono più contenuti dal punto di vista sociale, perché abbiamo regole e strumenti assenti invece in Francia. Poi, bisogna compiere un’operazione precisa per distinguere flessibilità e precarietà, evitando di assommare le due cose. Dovremmo marciare con più convinzione verso i progetti di flessibilità e sicurezza, mentre la precarietà va combattuta. Perché non è solo il lavoro svolto saltuariamente, ma pure il lavoro nero, quello sommerso, quell’economia grigia che distorce il sistema economico e le possibilità occupazionali. L’Italia ha tante potenzialità. Lei su cosa punterebbe? Guardando in avanti, punterei con molta determinazione sul Mezzogiorno. Io credo che lo sno- do vero di uno sviluppo compatibile, di una crescita sociale sia il Mezzogiorno, per cui è indispensabile ricostruire i tratti di un’unità nazionale che si è un po’ sfilacciata. Dentro questo quadro, io collocherei due cose. La prima è un grande investimento sulla risorsa umana. Ne abbiamo enorme bisogno. E non intendo solo i laureati in materie tecniche e scientifiche, di cui siamo carenti. Penso ad un processo di formazione continua e permanente che coinvolga l’insieme del mondo del lavoro, ad incominciare dai giovani, per renderlo più adeguato alle sfide che verranno dall’economia della conoscenza. Questo è un grande tema. E l’altro? Punterei a sbloccare e liberalizzare le incrostazioni di questo paese, creando maggiore concorrenza, una concorrenza seria, corretta. Abbiamo tante corporazioni, troppi blocchi, troppe rendite consolidate, che bisogna rimettere in gioco. Poi, certo, bisognerebbe riformare il sistema sociale, ma quella è una partita più lunga. Ma si può ancora indugiare? I dati ci sconsigliano. Siamo in presenza di un declino demografico – l’unico incremento di natalità è dato dagli immigrati – a motivo del quale c’è l’urgenza di riadeguare il nostro stato sociale alla carenza di bambini e alla necessità di accompagnare gli anziani. Bisogna porre attenzione ai giovani, alla famiglia e alle donne. Ma anche agli immigrati e a come si integrano con le loro famiglie nel nostro Paese. Abbiamo tante potenzialità ma anche grandi sfide. Ed un Paese che invecchia fa più fatica a raccogliere le sfide. FAMIGLIE E POVERTÀ Nessuno cambiamento sul fronte della povertà in Italia. Le famiglie in condizioni di indigenza sono infatti oltre 2,5 milioni, l’11,1 per cento del totale, mentre nel 2004 erano l’11,7. Ne sono coinvolti oltre 7,5 milioni di connazionali, 70 per cento dei quali al Sud. La stima d’incidenza della povertà compiuta dall’Istat si basa sulla determinazione di una soglia di povertà relativa pari ad una spesa media mensile di due componenti calcolata in 936 euro. Al Nord le famiglie al di sotto di questo limite sono il 4,5 per cento del totale, al Centro il 6, nel Mezzogiorno il 24 per cento. Al Sud non ci sono solo più poveri, ma vivono anche peggio rispetto alle altre aree del Paese, hanno chiarito i ricercatori dell’Istituto di statistica. Le regioni con meno povertà sono l’Emilia-Romagna e la Lombardia, quelle più colpite sono Sicilia, Campania, Basilicata. A pesare al Sud è anche la presenza di famiglie con cinque o più componenti: in Italia il 26,2 per cento di queste famiglie vive in povertà, ma nel Mezzogiorno il dato sale al 39,2. Più contenuto è invece lo stato d’indigenza tra le persone sole e le coppie senza figli. FINANZIARIA E PANZER DA CITTÀ Alla fine pagheranno? Quali pagheranno? Quanto pagheranno? Non poteva mancare un risvolto ilare nelle 253 seriose pagine della Finanziaria, quello riguardante i cosiddetti Suv. Si tratta di quei fuoristrada muscolari ed eleganti, con ruote superiori a 73 centimetri, che, come tante specie di animali, stazionano nelle aree urbane invece delle abituali zone agresti. Consumano un sacco i carburante, inquinano non poco, aggrediscono i marciapiedi più alti, dove stazionano con protervia, e soprattutto sembrano veicolare una cultura aggressiva ed esibizionista. Il testo iniziale della Finanziaria prevedeva una sovrattassa per i Suv di peso superiore ai 26 quintali. Ne sarebbe stato colpito lo 0,5 per cento dei 200 mila in circolazione (32 mila quelli venduti solo nei primi nove mesi del 2006). Si è corsi ai ripari, proponendo di abbassare di 4 quintali il limite minimo oltre il quale scatta il superbollo. I motivi addotti sono legati all’impatto ambientale dei panzer da città. Per questo sono penalizzati anche in Svizzera e Germania. Non sappiamo come andrà a finire. Certo è che più che una tassa sul lusso, sembra, come dicono molti romani, un provvedimento contro il cattivo gusto. Suv è la sigla che sta per sport utility vehicle, letteralmente veicoli per uso sportivo. Ma, in città, cosa ci fanno? Da qui, la nuova traduzione: Senza utilità vera.

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