Il Perù torna al bicameralismo?

In Parlamento, a Lima, si cerca di ottenere il quorum necessario ad evitare un referendum. Quattro anni fa, il “no” ad una seconda camera ottenne il 90% dei voti.
Pedro Castillo, presidente del Perù (AP Photo/Martin Mejia)

È meglio un Parlamento con una sola Camera oppure con due? Non é facile, e forse neppure possibile, rispondere a questa domanda che inquieta i costituzionalisti di mezzo mondo. Forse perché la risposta è che quando un sistema politico entra in crisi spesso non è per ragioni tecniche ma a causa dei valori che animano la politica. Si può funzionare bene con una pessima Costituzione e male con una di grande qualità. Le istituzioni sono anche strumenti, dipende da come sono considerate e come vengono utilizzate.

La crisi politica peruviana, con tutti i presidenti dagli anni ’90 in qua accusati o condannati – ed uno suicidatosi prima di essere incarcerato –, per diversi reati, soprattutto quello di corruzione, con un Parlamento frammentato, partiti che nascono improvvisati alla luce di interessi personali e che spariscono con la stessa velocità con la quale appaiono, con legislatori condannati o sotto processo, dice che il problema non è tecnico e non dipende dalla composizione del potere legislativo, ma dall’uso che si fa o si pretende di fare del potere e dei mandati.

Eppure, nuovamente, il tema del bicameralismo è tornato ad apparire nell’agenda politica, ed anzi ben 71 dei 130 deputati hanno votato per riformare la Costituzione e tornare ad istituire il Senato, dotandolo di una trentina di seggi. Per la presidente della Commissione costituzionale, Patricia Juárez, “è quanto di meglio per il Perú”, al punto da riproporre nuovamente la votazione onde arrivare agli 87 voti necessari per approvare la riforma costituzionale. Membro di Fuerza Popular, il partito di Keiko Fujimori, figlia dell’ex dittatore Alberto Fujimori in carcere per delitti di lesa umanità – un gruppo invischiato in un grande numero di scandali –, Juárez non può ignorare che appena quattro anni fa la proposta di ritorno al bicameralismo venne sottoposta a referendum popolare e rigettata dal 90% dei votanti. E per altro fu proprio il capostipite del fujimorismo a promuovere l’eliminazione del senato nel 1993. Quanto basta per avere forti sospetti sulle reali intenzioni dei promotori di un’iniziativa sulla quale il popolo sovrano si è già pronunciato con un “no” chiaro.

Gli argomenti utilizzati per sostenere l’iniziativa di riforma costituzionale sono abbastanza generici: migliorare la qualità della produzione di leggi, disporre di tempo per una riflessione più profonda e seria in merito alle questioni sulle quali decidere. Secondo alcuni altri partiti, il Senato consentirebbe di rappresentare meglio nel Parlamento i 33 milioni di abitanti del Paese.

Ma, occorre chiedersi se la qualità delle leggi varate dipende davvero da un secondo vaglio da parte di un Senato, e cosa possa assicurare che un’altra camera significhi tale salto qualitativo. Negli ultimi anni si è assistito a dibattiti impoveriti da interessi e parzialità evidenti. L’uso spregiudicato del processo di destituzione del presidente, facilitato da un irresponsabile avallo da parte del Potere Giudiziario, non depone a favore di tale teoria.

Mentre la maggior parte della destra è favorevole all’iniziativa, a sinistra ed al centro le adesioni sono divise, e questo spiega perché, se non si raggiunge il quorum necessario si tornerà a consultare gli elettori. Il Parlamento non gode di buona fama nell’elettorato e sarà difficile che l’iniziativa possa prosperare allo stato attuale delle cose. Pare proprio che siamo di fronte a una manovra diversiva che, in realtà, cerca di cambiare gli attuali equilibri tra le forze presenti. I temi di fondo sono altri. Primo tra tutti: la questione morale.

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