Perù e la questione morale

Cinque presidenti in quattro anni, una sequela di premier succedutisi in appena sei mesi stanno ad indicare un problema di governabilità che si accompagna a una corruzione diffusa.
Pedro Castillo (AP Photo/Guadalupe Pardo, File)

Il presidente del Perù, Pedro Castillo, non solo non riesce a superare la crisi politica che avvolge il sistema democratico, ormai endemica, ma è probabilmente lui stesso fonte di problemi. Ben quattro primi ministri si sono succeduti negli ultimi sei mesi, destituiti o dimissionari. Un ripasso delle figure scelte a presiedere il Consiglio dei ministri, offre ulteriori ragioni per restare basiti: queste vanno da un appartenente alla sinistra filocastrista ad un rappresentante dell’estrema destra. In quest’ultimo caso siamo direttamente di fronte alla figuraccia: Héctor Valer è durato in carica 72 ore, il tempo di scoprire che un giudice aveva preso misure precauzionali nei suoi confronti, essendo accusato di violenza domestica nei confronti della figlia e della sua, ormai defunta, ex moglie; era poi invischiato con una figura indiziata di narcotraffico, accusato di aver falsificato i documenti di un concorso e persino di non pagare l’affitto. Quanto basta per rispedirlo a casa, ma anche per chiedersi chi diamine abbia consigliato il presidente e che criteri questi usa per nominare qualcuno per un incarico così delicato.

Pedro Castillo (AP Photo/Guadalupe Pardo, File)

Diciamo che Castillo, docente sindacalista proveniente dalla provincia, è arrivato alla presidenza in modo quanto meno improvvisato. Si è agganciato ad un partito di sinistra del quale non ha mai fatto parte, beneficiando del vento a favore dell’antifujimorismo diffuso in Perù, originato dalla scandalosa gestione dittatoriale di Alberto Fujimori negli anni ’90, e dal populismo in odore di corruzione della figlia Keiko. Quest’ultima, da una dozzina d’anni è impegnata a perdere al secondo turno presidenziali nelle quali la maggioranza dei votanti preferisce avventurarsi con personaggi poco conosciuti piuttosto che vederla presidente. L’anno scorso è toccato a Castillo di “salvare” la repubblica dal fujimorismo: la reazione infuriata ha fatto ritardare di un mese la proclamazione della vittoria di Castillo, inondando i tribunali con migliaia di denunce di brogli (Donald Trump docet) mai provati.

Il sistema peruviano, un po’ alla francese, prevede che il presidente sia capo del governo e nomina il consiglio dei ministri ed un premier, che lo presiede e che deve ottenere dal Parlamento (monocamerale) la fiducia per poter gestire il programma dell’Esecutivo. Pedro Bellido, appartenente alla sinistra, non è durato molto, alcuni scandali hanno reso inevitabile la sostituzione. Gli è succeduta Mirtha Vázquez, dimissionaria un paio di settimane fa dopo aver giudicato troppo timido l’appoggio di Castillo alla sua lotta contro la corruzione. Insieme a lei, in un Parlamento già frammentato, il presidente ha perso l’appoggio della sinistra moderata. Non è agevole comprendere come si sia giunti alla nomina di Valer, destituito in un batter d’occhio.

Protesta contro il governo (AP Photo/Martin Mejia)

Il doppio nodo della matassa è lo scontro permanente tra Esecutivo e Legislativo, popolato da partiti spesso confezionati su misura per leader impegnati a portare avanti la propria agenda di interessi, spesso tutt’altro che trasparenti. Dunque, scontro istituzionale (cinque presidenti in quattro anni), con un parlamento che ci ha preso gusto a utilizzare una dubbiosa norma costituzionale che prevede la destituzione del presidente per “incapacità morale”, una formula ampia che consente di applicarla a piacere.

D’altro canto, la dice lunga il fatto che dagli anni ’90 in avanti, siano finiti tra le maglie della giustizia tutti i presidenti. Ma questo non significa che i parlamentari non abbiano gli armadi pieni di scheletri. La stessa Keiko Fujimori è in attesa di giudizio ed è sotto libertà vigilata per una lunga serie di reati. E nemmeno c’è molto da fidarsi della magistratura, invischiata in pratiche corrotte anche ai suoi massimi livelli.

Dunque, un presidente improvvisato – quando si candidò alla presidenza i mezzi stampa faticavano a trovare foto sue –, che non dimostra di avere idee chiare in mezzo a una crisi di grandi proporzioni, contribuisce a mantenere il Perù fuori dallo scenario sudamericano, trasformando la sua vocazione di rilevante potenza in una presenza poco significativa. Qualcosa del genere è accaduta anche in Argentina e Brasile negli ultimi anni, dove pure si conferma che non basta vincere le elezioni, senza affrontare decisamente la questione morale.

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