Persone, non numeri

Avviamo un dialogo sulla questione dell'occupazione da salvare e creare.
Manifestazioni

Sono giorni di crisi. Famiglie che devono pagare il mutuo e si trovano senza soldi perché perdono il lavoro. Giovani che non trovano un’occupazione stabile e cercano di rimuovere l’idea di una vecchiaia con una pensione insufficiente.

Come di fronte a un’alluvione, occorre agire assieme per ricostruire e rimuovere le cause che hanno provocato il disastro, serve il concorso di tutti. Diamo, perciò, spazio agli interventi di un imprenditore e di un sindacalista sulla regolamentazione del rapporto di lavoro.

Realtà complessa su cui deve intervenire. Ci sono gli artigiani e i piccoli imprenditori, a contatto giornaliero con i propri dipendenti. Un’altra cosa sono quelle società controllate da fondi finanziari che esigono il mantenimento di margini di profitto predefiniti, pena la chiusura o la delocalizzazione della produzione. Spesso le piccole imprese sono l’indotto di multinazionali. Quando chiude la grande impresa, bisogna moltiplicare almeno per tre il numero di coloro che perdono il lavoro.

Cambia la stessa struttura aziendale. Tende a scomparire il modello che vede tutti sotto lo stesso tetto con il medesimo datore di lavoro. Ora si lavora fianco a fianco, ma con contratti diversi tra loro che rimandano anche a differenti società. Colleghi che non sono più tali perché vengono ceduti ad altra azienda, legata da un rapporto di fornitura temporaneo. 

Di fronte a uno Statuto dei lavoratori aggirato in tanti modi, e che finisce per tutelare solo alcuni, una sfida che gli attori in scena debbono affrontare rimane quella di non livellare i diritti verso il basso, ma di dare dignità a tutti.

 

 

L’imprenditore: una legge per il lavoro

di Alberto Ferrucci

 

Quando si è capito che la Grecia aveva truccato vicino al 3 per cento un deficit di bilancio che era al 12,7 e si è avvertito il rischio di speculazioni su titoli di altri Paesi europei tra cui il nostro, la prospettiva del baratro dell’uscita dalla moneta unica faceva sparire dal dibattito politico ogni ipotesi di aumento di spesa pubblica in favore del lavoro. Una decisione giusta come tattica, che però non può diventare strategia: abbiamo bisogno di un domani in cui i giovani, grazie a un rapporto di lavoro per quanto possibile stabile, possano mettere su famiglia.

Rapporti di lavoro così sono anche un’aspirazione delle aziende, che però oggi esitano a instaurarne di nuovi perché in Italia è più semplice divorziare dalla moglie che terminare, per esubero di personale o scarso rendimento, un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.

Nelle aziende che occupano più di quindici dipendenti, chi viene lasciato a casa ha il diritto di far causa, e nel caso di vittoria in giudizio, avrà diritto, oltre alle penali contrattuali, a ricevere lo stipendio per l’intero tempo del processo: almeno tre anni, dopo il quale vi è anche l’eventualità della reintegrazione.

Nei fatti, i diritti di chi ha un lavoro stabile rendono difficile trovarne uno per chi non lo ha: occorrerebbe una legge che, a costo zero per lo Stato, definisse un nuovo contratto a tempo indeterminato con un periodo di prova di un anno, e non di poche settimane, in cui per i primi cinque anni il lavoratore accetterebbe la possibilità di un licenziamento compensato da una penale in base alla durata dell’impiego, senza poter opporvisi in giudizio.

Il vantaggio per l’azienda, nel caso di incremento del numero di dipendenti occupati, sarebbe che per tre anni essa potrebbe conteggiare un credito d’imposta pari all’ammontare delle imposte a carico del lavoratore. Questa agevolazione avrebbe per lo Stato un impatto finanziario nullo perché esso rinuncerebbe a queste imposte, non compensabili con Iva o Irap, solo a fine anno e in caso di azienda in utile, avendo già incassato altrettanto dalle imposte detratte al lavoratore nel corso dell’anno.

 

Il sindacalista: centralità della persona e lavoro

di Stefano Biondi

 

In Italia abbiamo diversi rapporti di lavoro mascherati come parasubordinati o autonomi, ma che tali non sono. Per non parlare del lavoro nero che un ispettorato del lavoro, lasciato senza risorse, non può contrastare.

La maggior parte delle aziende sono di piccole dimensioni. Cioè sotto quella soglia dei 15 dipendenti dove non vale la protezione dell’articolo 18 dello Statuto, che prevede giustamente il reintegro nel posto di lavoro per i licenziamenti avvenuti senza giusta causa.

Questa massima flessibilità è il volto di una precarietà che può aver creato ricchezza per alcuni, ma prodotto costi sociali altissimi. Non ha stabilizzato i posti di lavoro e ha frenato la competitività del nostro Paese.

In generale, cresce il fenomeno dei working poor, cioè di coloro che, pur lavorando, hanno un reddito che rimane sotto la soglia di povertà relativa.

Con l’avvento della crisi economica, si è arrivati, in alcuni casi, al paradosso di passare dalla retorica dei dipendenti invitati ad identificarsi con l’azienda e la sua “mission”, alla considerazione degli stessi come “esuberi” da mettere fuori la porta, senza tante storie.

E solo nel momento del licenziamento ormai annunciato, i sindacati hanno visto arrivare tante persone, impaurite e sole, a chiedere una tutela ormai già compromessa.

La gran parte dei progetti di riforma del diritto del lavoro già esistenti (Ichino e Boeri) prevedono forme di inserimento graduale in una posizione stabile di lavoro. Definiscono una durata prolungata del periodo di prova e un certo numero di anni in cui la cessazione del contratto per motivi economici comporta solo un’indennità predefinita.

Ma tutti i rapporti di lavoro sono definiti a tempo indeterminato. I contratti a termine ridiventano un’eccezione. Mentre i contratti di collaborazione o a progetto rimangono solo per redditi superiori a 40 mila euro.

Il modello di riferimento è quello scandinavo della flexisecurity. Che presuppone forti investimenti nelle indennità di disoccupazione e un accompagnamento nella ricollocazione dei lavoratori rimasti senza occupazione. Il criterio guida è quello di non abbandonare, ad esempio, quarantenni e cinquantenni alla mercé del fato. Una logica che premia, quindi, l’iniziativa delle aziende verso la buona occupazione e pone un freno al darwinismo sociale. Ma occorrono miliardi di euro per una politica attiva del lavoro. È significativo, perciò, che si parli nuovamente, anche in sedi istituzionali, di una tassazione sulle transazioni finanziarie di carattere speculativo destinata a quei conti pubblici destinati, nei prossimi anni, a peggiorare.

In generale, si tratta di modificare le regole del gioco. L’impresa non è solo degli azionisti, ma di tutti coloro che vi operano. Un tipo di “governance” improntata alla democrazia economica permette di rispondere in maniera efficace alle sfide competitive della globalizzazione. Coraggiose scelte di politica industriale, finora molto flebili o assenti, vanno condivise senza passare sopra la testa dei lavoratori.

Su queste basi può trovare posto l’idea di una regolamentazione del rapporto di lavoro fondato sulla consapevolezza di aver a che fare non con una merce, ma con l’esistenza stessa della persona.

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