Perché si è taciuto?

Non si dipana nessuna trama nelle tre stanze dove tre singoli personaggi si parlano senza mai interagire. Si scambiano idee, opinioni, quesiti attuali che riguardano il passato e il futuro. Ad essere rappresentato è un epistolario, Il silenzio dei comunisti (pubblicato da Einaudi), tra Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin, che il regista Luca Ronconi ha teatralizzato per il Progetto Domani ideato con Walter Le Moli e prodotto dallo Stabile di Torino per le Olimpiadi della Cultura. Il carteggio, foriero di molti interrogativi, nasce da una domanda di fondo rivolta da Foa agli altri due intellettuali di sinistra, sul perché si è taciuto, quando si sapeva di quei delitti e di quella strage di massa che avveniva nelle tundre gelate della Siberia, nelle pianure ucraine, nelle prigioni di Mosca e di Leningrado? Da qui altre domande sul significato di rivoluzione, sul rapporto tra passato e avvenire, su temi riguardanti la verità, la libertà, la tirannide, la giustizia, il coraggio. Il giudizio della storia è già calato pesante sui fatti. Oggi, la trasposizione teatrale di questo testo si aggiunge alle tante riflessioni che sono state fatte in proposito. Abbiamo intervistato due dei tre interpreti, Luigi Lo Cascio e Maria Paiato (il terzo è Fausto Russo Alesi) alla vigilia della ripresa dello spettacolo al Fabbricone di Prato. Come avete lavorato con Ronconi per rendere teatrale un testo non nato per la scena? L.C. Non è stato necessario nessun tipo di mimetismo, dato che fin dall’inizio l’indicazione era di essere delle funzioni, non dei personaggi. Tra l’altro sarebbe stato assurdo interpretare Foa, Reichlin e Mafai non solo per il fatto anagrafico, ma anche per la disparità in termini di memoria. P. Ronconi ci ha lasciato tirare fuori da noi tante cose. Personalmente dovevo mescolare tre entità: l’intellettuale Mafai, l’attrice con i miei strumenti di lavoro, e il personaggio semplice che riflette e dice. Abbiamo lavorato tra il distacco e la partecipazione emotiva. Ronconi pensava a un calore che venisse direttamente da noi e non indotto da un pensiero, proprio perché le lettere sono una materia complessa. La Mafai ha una scrittura lineare e chiara che, procedendo per punti, risponde a tutte le domande poste. Dalla lettera viene fuori una grande vitalità, quella che ho cercato di tirare fuori. Sono autori che parlano di sé, della loro vita… L.C. Ci sono i loro interrogativi, i dubbi e i tentativi di risposta. La domanda di Foa su quale sia il motivo del silenzio dei comunisti è per lui un’ossessione. Quindi considerando che parlano della loro vita, e non avendo noi questa esperienza, conveniva mettersi dalla parte di chi non conosce tutto cercando di restituire al testo qualcosa che poteva essere di interesse collettivo, in cui un’altra persona poteva azzardare questo tipo di domande o tentare delle risposte. Come vi siete preparati per dare voce ai vostri personaggi? L.C. Per una mia curiosità e per cercare di creare un contesto in cui inserire le parole che dico, ho letto altri libri di Foa. La mia preparazione è stata quella di ancorare ciascuna frase a un impulso, a interrogativi che tutti possono porsi rispetto a queste vicende. I personaggi, parlando al passato, al presente, e proiettando le loro questioni anche nell’utilità del futuro, si vedono come delle entità in movimento, alludono spesso a questa pluralità di esperienze, di identità, in cui i cambiamenti storici avvenuti hanno costretto a riorganizzare la loro posizione soggettiva rispetto al mondo. P. Da chi conosce la Mafai, mi sono sentita dire che sembro lei. Proprio quello che non volevo. Ma inevitabilmente viene fuori una similitudine per il modo concreto e diretto di essere donna senza tanti fronzoli. Miriam ha avuto un contatto concreto con le difficoltà della vita andando, mandata dal partito, in zone periferiche e difficili dell’Italia da ricostruire, dove c’era miseria e analfabetismo. Io vengo da una famiglia di estrazione contadina, in qualche modo simile a quelle che lei avrà incontrato. Quindi non mi è stato difficile recuperare queste cose perché mi appartengono. Come pure la matrice politica. Quali sentimenti e riflessioni suscita un testo dalle tematiche, apparentemente, solo politiche? P. È una riflessione impietosa e lucida, nel positivo e nel negativo, su quello che c’è stato di buono e di sbagliato. È un’indagine sull’uomo, su come si prospetta per lui il futuro prossimo, dove è fortissimo l’individualismo. Una volta era più facile creare un senso della collettività oggi perduta, ma dentro ciascuno esistono delle possibilità di riscatto, per cui l’uomo, riflettendo e lavorando su sé stesso, può fare nascere delle cose importanti. Come ad esempio il volontariato (di cui si parla nel testo), il bisogno di riconoscersi non solo nel proprio lavoro ma anche in altri ambiti della propria vita. Quindi il bisogno di non perdersi e di trovare soprattutto un codice nuovo. Oggi viviamo in un benessere diffuso, ma è solo apparente perché appena ci spostiamo dal nostro piccolo mondo scopriamo che consumiamo l’80 per cento delle risorse mondiali mentre ci sono milioni di persone che non hanno accesso ad esse. Queste sono tematiche universali. Nel testo poi si parla anche del Pci, ma criticandolo, vedendone i limiti. L.C. Quello che più mi ha interessato è anzitutto l’interrogativo -alla luce degli errori storici – se sia davvero impossibile conciliare socialismo e democrazia. Il principio distruttivo del comunismo è stato il fatto che ha avuto, in tutte le sue manifestazioni, una deriva totalitaria. La domanda è se è veramente così impossibile conciliare istanze come il tentativo di giustizia e di uguaglianza diffusa, con la democrazia. Ronconi ha usato l’interrogazione per ridarle un senso. Che valore dai tu alla parola poetica e a quella quotidiana? L.C. Hai ragione a sottolineare questi due aspetti perché il titolo contiene le due caratteristiche fondamentali, sia del testo che dello spettacolo. Da un lato i comunisti, la parte tematica; dall’altra la parte metodologica, il silenzio. Esso è il sottofondo, il laboratorio in cui si possono forgiare le parole per ridare loro un nuovo significato alla luce delle trasformazioni storiche. C’è quasi un’attività di ricerca – parola che torna spesso nelle lettere – e quando c’è questa è qualcosa che riguarda tutti, e non un solo ambito. Per quel che mi riguarda la parola è tutto. Anche nel silenzio si è sempre in rapporto con essa. Riesci a dare un’anima alla parola di un testo razionale come questo? P. Anche se sono come dei monologhi tecnici si sente che è una persona a parlare. Per cui non è stato così difficile veicolare attraverso la parola dei sentimenti, un’emozione, un calore. Credo che la parola quando viene portata in teatro, qualunque essa sia, ha la possibilità di vivere, di vibrare, perché il teatro consente questo. Il teatro può dare delle risposte agli interrogativi dell’uomo di oggi? L.C. Non credo che si vada a teatro per imparare. Difficilmente si va in condizioni di innocenza per potersi sentire chiamati in causa rispetto a qualche cosa che tocca in profondità l’uomo. Quello che può fare il teatro non è soltanto formulare domande, ma articolarle bene in modo che esse abbiano come bersaglio il pubblico e che questi le senta rivolte a sé. La precisione con cui viene articolata una domanda è già un piccolo spostamento verso un’eventuale risposta. La riflessione sul significato dell’essere stati comunisti riguarda solo l’uomo di sinistra, o può servire, più universalmente anche all’uomo di oggi? P. Credo che sia assolutamente aperta all’uomo di qualunque colore, bandiera, nazione, estrazione. Non è uno spettacolo di appartenenza, ma un’occasione per tutti per capire da dove si viene, che cosa è successo in un momento particolare della nostra storia, e dove si può andare.

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