Perché rivedere The Passion

Giudicato troppo cruento, il film di Mel Gibson è tuttavia coraggioso e innovativo
The passion

Va bene la flagellazione con le carni che davvero si squarciano, la brutalizzazione dell’incoronazione di spine e una morte atroce svelata nei dettagli? Non era troppo nella Passione diretta nel 2004 da Gibson e interpretata con assoluta partecipazione intima e un distacco malinconico (bellissimo lo sguardo) da Jim Caviezel? Parecchia gente non ha amato questo film.

Gli ha preferito il Cristo teatrale e lussuoso di Zeffirelli, quello enigmatico, veloce, giovanile di Pasolini. Gibson era troppo americano (australiano in verità), troppo rétro nel gusto (le citazioni dalla mistica Katharina Emmerick), troppo preso dall’ horror per affrontare in modo non troppo conturbante la Passione.

Eppure, la Passione è stata violenza. Estrema. Nel corpo e nell’anima del Redentore. Decine di opere d’arte lo avevano già descritto in modo emotivo, dalle Pietà scarnificate del Nord-Europa allo spaventoso Crocifisso di Grunewald a Colmar (1512-16), agli straziati Crocifissi del Gotico. Poi però l’arte si era impietosita nel “bel” Gesù sofferente di Guido Reni, degli artisti barocchi e di quelli dolci dell’Otto-Novecento. Perciò mettere a nudo la sofferenza fisica atroce che comportava realmente la Passione era apparso stonato, eccessivo. Insomma, Cristo aveva sofferto, però non andava mostrato fino a quel punto.

Gibson invece, seguendo il suo temperamento focoso di neo-convertito, ha rischiato e ha fatto il contrario. Ha fatto parlare Gesù in aramaico, con i suoni aspirati e rauchi per noi sgradevoli, ne ha fatto vedere il sangue e le grida, caricandole di venature impietose: insomma la passione come dolore fisico immenso. Ma non ne ha risparmiato il tormento intimo, nel grido accorato dell’“abbandono”.

Ma forse l’innovazione più bella e originale riguarda la figura di Maria. Non la madre disperata di Pasolini né quella quasi in stato catalettico di Zeffirelli, ma la madre che sa, o meglio sapeva e che guarda, soffre, comprende. La Maria di Gibson è una delle migliori rappresentazioni della maternità dolente, della sofferenza del cuore a fatica tenuta a freno, di una fede nonostante tutto.

Stupendo il dettaglio finale della Resurrezione, poco notato. Cita, forse senza saperlo, la tela delicatissima di Rembrandt a Monaco. La tomba è vuota. Siamo dentro nel sepolcro. Nella luce fioca il Cristo bellissimo, bianco, dal corpo fresco, attende di uscire. Un abbaglio è la resurrezione è svelata.  Questa è poesia, poesia della fede. Un tocco da maestro che giustifica la visione del film e ne supera anche i difetti o gli eccessi.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons