Perché l’Italia è ancora a terra?

La vita istituzionale pare percorsa da sommovimenti tellurici. Sorgono i quesiti a cui si chiede risposta.
Mendri di equipaggio

No, non si avvertiva proprio l’esigenza di un’ulteriore bufera politico-giudiziaria nazionale. Avevamo ancora negli occhi le scene di violenza e di vandalismo compiute da sparute minoranze durante le pacifiche manifestazioni degli studenti universitari. E avevamo nelle orecchie le loro sacrosante domande di futuro.

Bastava questo a farci restare inquieti e a chiederci cosa fare. Invece sono arrivati i dati dell’Istat da cui emerge un quadro scoraggiante: una donna su due non lavora e ha rinunciato a cercare un impiego; un giovane su cinque non lavora (in Europa, dietro l’Italia solo Malta); oltre due milioni di giovani tra 15 e 29 anni non studiano, non lavorano, non cercano un posto (dato peggiore dell’Unione europea).

Si stavano ancora commentando i risultati del referendum di Mirafiori, quando hanno fatto irruzione le ultime previsioni 2011 del Fondo monetario sulle stime al ribasso (solo 1 per cento) della crescita dell’economia italiana, mentre la Germania volerà al 2,4.

In buona sostanza, le famiglie avevano già sin troppi grattacapi e non aspiravano a conoscere – stando alle testimonianze e alle intercettazioni telefoniche diffuse – lo svolgimento delle serate ad Arcore.

 

La contestazione di gravi ipotesi di reato (concussione e ricorso alla prostituzione minorile) da parte della Procura di Milano nei riguardi di Berlusconi hanno creato «turbamento nell’opinione pubblica», come ha stigmatizzato subito il presidente della Repubblica Napolitano, che ha auspicato di procedere «al più presto ad una compiuta verifica delle risultanze investigative».

Anche la Chiesa cattolica è intervenuta, ad incominciare dal segretario di Stato card. Bertone, che ha manifestato «preoccupazione» di fronte «alle famiglie e alle nuove generazioni, alla domanda di esemplarità e ai problemi che pesano sulla società». Ha perciò invitato quanti hanno una responsabilità pubblica «ad assumere l’impegno di una più robusta moralità, di un senso di giustizia e di legalità».

«Fare presto». È quanto tutti invocano riguardo all’accertamento dei reati contestati a Berlusconi, in modo da evitare lo stallo del Paese. Ma – complici anche il diniego del presidente del Consiglio a recarsi dai giudici milanesi e la sua mossa di passare da accusato ad accusatore –tutto sembra concorrere a trasformare la Penisola in una smisurata aula di tribunale, dove gli italiani saranno costretti al ruolo di giuria popolare nel braccio di ferro tra magistrati ambrosiani e capo del governo.

Sarebbe la peggiore delle sorti, perché a nessuno giova una prospettiva del genere. Non solo per l’immagine desolante dell’Italia all’estero, ma anche perché la politica nazionale finirebbe (come stiamo già vedendo) per non occuparsi di altro.

Gli italiani attendono invece risposte rapide su ben altri fronti, quelli, ad esempio, segnati dalla crisi economica ed occupazionale. Ma è altrettanto vero che la vicenda di Arcore ha fatto sorgere nuovi quesiti.

 

«Ahi, serva Italia, di dolore ostello – poetava Dante –, nave sanza nocchiere in gran tempesta, non donna di province, ma bordello». Non sappiamo cosa scriverebbe adesso il Sommo, mentre quanto si pensa in tante case lo esprime Francesco Belletti, presidente del Forum delle associazioni familiari: «Chi ha le principali responsabilità politiche non intercetta i bisogni veri delle famiglie. E adesso ecco un’altra preoccupazione, la maggiore difficoltà nel tenere alti i valori e nello smascherare i disvalori». Previene subito possibili obiezioni: «Attenzione, non è un tema moralistico. Questo disastro antropologico è una faccenda molto concreta: mi domando che cosa sto insegnando a mio figlio in fatto di impegno, sacrificio, responsabilità, e per cosa vale la pena di vivere, quando il clima culturale complessivo valorizza la fortuna, il successo senza fatica, percorsi privilegiati che eliminano requisiti e meriti».

La presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, se n’è uscita con parole nette: «Da sei mesi l’azione del governo non è sufficiente». Apriti cielo! Fuoco di fila da parte degli esponenti governativi. Ma resta vero che molta gente si chiede chi stia effettivamente governando.

«Le élite politiche ed economiche che hanno in mano il Paese – afferma Mauro Magatti, preside della facoltà di sociologia della Cattolica di Milano – offrono all’Italia una guida molto confusa. Non è solo legato a scandali e comportamenti immorali, il fatto è che il Paese non ha una direzione di sviluppo, non ha obiettivi condivisi da perseguire, non ha una speranza a cui guardare. La Seconda Repubblica sta mostrando il suo esaurimento, perché è lontana dalle radici del Paese».

 

Il governo va a rilento, il Parlamento è condizionato da un’incerta maggioranza. Giorgio Santini, segretario generale aggiunto della Cisl: «Comanda il disincanto, il cinismo e una deriva morale, conditi da esempi deprimenti, mentre il Paese avrebbe bisogno di risposte, di stimoli maggiori».

Come uscirne? «La politica, da sola, non ce la fa e si rifugia nell’invettiva, ma nei diversi partiti ci sono persone che possiedono il senso dello Stato e hanno a cuore l’interesse del Paese. Questa trasversalità va sostenuta da parte delle forze sociali ed economiche, e da quelle che hanno una rappresentanza vera tra la gente. Se si mettono assieme, possono trovare la forza di determinare un cambiamento, perché, a motivo di quanto sta succedendo, tanta gente ha voglia di misurarsi con i problemi».

E il Sud? «Anche i problemi reali e le risorse del Mezzogiorno – chiarisce il sociologo Gennaro Iorio, docente all’università di Salerno – non sono rappresentati dalla logica scandalistica imperante dell’informazione. Eppure non mancano segnali di speranza: gruppi di difesa dell’ambiente, associazioni che sostengono la raccolta differenziata dei rifiuti, comitati di difesa dell’acqua come bene pubblico; a livello istituzionale, Sardegna e Basilicata hanno saputo utilizzare i fondi strutturali per uscire da uno stato di arretratezza».

Due Italie, due velocità, non solo e non tanto Nord-Sud, ma Palazzo-cittadini. Non basta perciò che ci sia una parte del Paese che si alza presto, lavora con coscienza, vive con onestà per dare futuro alle nuove generazioni se mancano adeguate classi dirigenti.

«Bisogna ripartire – propone Iorio – da una legge elettorale che rimetta in collegamento i rappresentati con i rappresentanti. Quando non c’è il contrappeso delle istanze popolari, quando mancano i correttivi alle degenerazioni del potere, la vita politica diventa palcoscenico e l’unico luogo di confronto sono i giornali, le trasmissioni televisive gridate. Questo è il cortocircuito creatosi in Italia».

In definitiva, gli intervistati confermano quanto il sociologo Francesco Alberoni scriveva pochi giorni fa sul Corriere della Sera: «Sono molti quelli che non ne possono più dell’inerzia, della pigrizia, della volgarità e dello squallore. Forse ci riprenderemo anche stavolta grazie all’azione di minoranze attive che danno l’esempio e trascinano gli altri». Sappiamo dell’esistenza di queste minoranze, la rivista le sostiene e molti lettori ne fanno parte. Adesso è il momento di coinvolgere gli altri in un processo civile virtuoso, ponendo domande e cercando risposte. Le pagine che seguono – di un “Primo piano” insolitamente ampio – intendono offrire un apporto in tal senso.

Paolo Lòriga

 

 

 

 

 

 

Istituzioni sotto pressione

 

Perché toghe e politici si scontrano?

 

Difetti dell’assetto istituzionale o una questione personale?

 

Si fa sempre più aspro il conflitto tra magistratura ed esponenti politici, ben oltre la dialettica connessa al funzionamento del sistema democratico, in cui il potere è sottoposto a controlli. È la logica dei pesi e dei contrappesi, che in Italia si esprime anche con l’obbligo per la magistratura di indagare (certo non perseguire) chiunque quando viene a conoscenza di reati commessi. Andiamo a fondo della questione con Agatino Cariola, docente di Diritto costituzionale nella facoltà di giurisprudenza dell’università di Catania.

 

Il “fattore Berlusconi” è l’unico scatenante il conflitto tra politica e magistratura, o vi è qualcosa che affonda nella struttura stessa del sistema democratico del nostro Paese?

«Divisioni profonde fanno parte della storia italiana, ma mi soffermo sulla “grande divisione” del Dopoguerra tra comunisti e sostenitori dei valori occidentali. Ciò ha bloccato l'assetto istituzionale per i primi quarant’anni di storia repubblicana; ha impedito il normale alternarsi di maggioranze al governo e minato la reciproca legittimazione delle forze politiche. Più recentemente abbiamo assistito alla trasformazione dei partiti medesimi in partiti personali, che ha ridotto la competizione politica ad una sorta di plebiscito pro o contro una persona».

 

Problema politico o culturale?

«Il problema rimane di ordine culturale e di formazione. Lo scontro tra le istituzioni è il frutto di una lotta che non riguarda più idee e progetti politici, ma persone. Rimango perciò scettico sull’idea che i magistrati mirino ad un progetto e siano guidati da una sorta di “grande vecchio”; vedo di certo nel panorama giudiziario iniziative isolate e deresponsabilizzate o chiusure corporative, ma mi preoccupo per quelle che riguardano i comuni cittadini che bussano al pianeta giustizia o ne sono coinvolti».         

 

Per superare questo grave stato di cose sono essenziali le tanto invocate riforme. A suo giudizio è necessario intervenire anche sulla Costituzione o può bastare una riforma della giustizia con legge ordinaria?

«L’assetto istituzionale può essere modificato, ma con un accordo molto ampio, perché si tratta di progettare e costruire la casa comune.

«Anche l’ordinamento della giustizia va migliorato, ma senza riforme parziali, veri e propri “tappabuchi”, oppure con interventi “punitivi”. D’altra parte, i giudici vanno formati all’idea che la loro attività è strumentale alla tutela dei diritti delle persone che si rivolgono loro e che atteggiamenti burocratici o corporativi a sostegno della loro particolare categoria non sono certo consoni alla funzione svolta. L’indipendenza della magistratura è un valore per così dire strumentale ad uno più alto, qual è la garanzia dei diritti».

 

E nei rapporti tra magistratura e politica?

«Riguardo l’azione penale esercitata nei confronti dei politici, penso che al momento non sia opportuno metter mano a riforme. Nel 1993 fu eliminata l’autorizzazione a procedere per i parlamentari per i reati commessi nell’esercizio delle funzioni, ma nel tempo si è sviluppata una ricca giurisprudenza che richiede uno stretto collegamento tra il fatto contestato e le funzioni del parlamentare per riconoscerne l’irresponsabilità. Se il parlamentare rubasse, non vi sarebbe spazio per l’irresponsabilità, ma ciò vale anche nel caso di dichiarazioni gravemente offensive nei confronti di qualcuno».

 

E reintrodurre i meccanismi di autorizzazione?

«Servirebbe a poco. Di fronte ad accuse di reati rivolte a politici che si riversano subito nel sistema mediatico e sull’opinione pubblica, non sarebbe certo sostenibile un filtro preventivo, affidato agli stessi politici. Per questo, avanzerei la proposta di una sorta di corsia preferenziale e di una ragionevole diminuzione dei tempi nei processi a carico di politici».

 

a cura di Iole Mucciconi

 

 

 

 

 

Tendenze

 

Perché si ride tanto?

 

Sbancano al botteghino le pellicole italiane che prendono in giro i vezzi nazionali

 

«Chi ha il coraggio di ridere è padrone del mondo». Questa frase non è d’un grande comico ma di uno che è passato alla storia per mettere tristezza anche a un becchino: il sommo poeta Giacomo Leopardi. Sì, si ha voglia di ritrovare il coraggio di sorridere, di spalancare la finestra e fare irrompere nella stanza aria fresca, frizzante di primavera. C’è voglia di ridere. Perché è consunta la cultura, che essendo stata per qualche frammento di tempo (ormai quarant’anni fa!) rivoluzionaria e innovativa è poi diventata arrogante e autoreferenziata e s’è barricata dietro così tanti luoghi comuni da riuscire ad annoiarci a morte. Perché è consunta la politica. Perché c’è la crisi, c’è mancanza di lavoro, c’è incertezza del futuro per i giovani, ma nonostante questo c’è voglia di riscoprire il coraggio di ridere.

 

È vero: la saggezza popolare ha sempre un po’ temuto la risata, ricordando che la vita è imprevedibilmente amara: «Chi oggi ride, piangerà domani», «il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi», recitano vari proverbi. Ma ha anche riconosciuto i potenti benefici della risata: «Ogni volta che uno ride leva un chiodo alla bara». Anche oggi c’è voglia di quella follia allegra, un po’ ingenua un po’ sbarazzina che è liberatoria, che polverizza i cliché, che in modo tenero, non volgare ma audace, sa farci ridere di noi stessi, delle nostre paure e anche delle nostre convinzioni. C’è voglia d’una risata liberatoria che in modo gentile, senza offendere, rompe gli ottusi schemi del «politicamente corretto» per ritrovare la capacità di dire pane al pane e vino al vino, a costo di sembrare un po’ all’antica.

 

La risata è spesso segno d’intelligenza; se si è intelligenti, si è capaci di ridere di tutto, affermava Aristotele. Perché un popolo che non sa più ridere diventa pericoloso; una persona che perde il senso dell’umorismo, dell’ironia e soprattutto dell’autoironia, può diventare temibile. Forse per questo tanti italiani (io fra quelli!) sono corsi nelle sale cinematografiche a vedere Una bella giornata di Checco Zalone. Perché nonostante tutta la tristezza che c’è attorno si vibra quando si può ridere. E ridendo un po’ ci si libera e si può ritrovare il coraggio di vivere in modo più sincero e più simpaticamente spavaldo. Per sentirsi, come diceva Leopardi, padroni del mondo. Del piccolo mondo che ci è attorno.

 

Michele Genisio

 

 

BOX

Il successo dei film comici

 

Regista attento all’oggi, Eugenio Cappuccio sta lavorando al suo nuovo film: Se sei così, ti dico di sì, commedia scherzosa, ma non troppo, sul mondo mediatico.

 

Perché la gente ha così voglia di ridere?

«I film che incassano – commenta – quasi sempre sono film “che fanno ridere”; sono quelli che toccano le corde necessarie del pubblico, sollevano la massa dalla percezione dei guai quotidiani per divertirla nel mare di triboli che la circondano. Dunque, sono risultati economici e sociali molto importanti e positivi. Fanno bene allo spirito, alla cosiddetta industria cinematografica, alle tasche dei produttori e un po’ agli autori. Moltissimo alla tasche degli esercenti, i proprietari dei cinema. Sono dei farmaci. Domanda: “Com’è quel film?”. Risposta: “A me m’ha fatto ride”. L’espressione romanesca (in sé orripilante) qualche volta ci solleva. Se però poi tutti i film devono farci ridere, altrimenti non si fanno i film, allora siamo alla deriva culturale. Ma di questo chi si meraviglierebbe oggi? Ridiamoci su».

 

a cura di Mario Dal Bello

 

 

 

 

Etica

 

Perché privato e pubblico si mescolano?

 

Il parere di Sergio Bastianel, presidente dell’associazione dei teologi moralisti italiani

 

Vanno tenute assolutamente distinte la vita privata di un uomo che ha responsabilità istituzionali dalla sua vita pubblica. Ma ciò vale anche quando la vita privata del personaggio in questione tracima su quella pubblica con comportamenti chiaramente disdicevoli e potenzialmente contro la legge?

«La distinzione è importante e perciò esige l’attenzione a custodire i confini tra le due dimensioni, cosa non sempre facile. La vita privata e la vita pubblica sono fatte di relazioni e queste fanno il tessuto della vita sociale. Quando i due livelli di relazioni si intrecciano in maniera consistente e continua, la distinzione diventa problematica. Chi ha responsabilità istituzionali lo sa ed è pubblicamente responsabile di eventuali comportamenti che con il suo modo di gestire le relazioni egli stesso porta dal privato al pubblico. Anche in questo caso, non si tratterebbe di indagare e giudicare la vita privata delle persone, ma ciò che nei loro comportamenti ha valenza e conseguenze pubbliche. Del resto, è ciò che vale sempre quando i comportamenti di una persona sono messi a confronto con la legge».

 

I responsabili della Chiesa cattolica negli ultimi tempi stigmatizzano tali comportamenti, in nome di una “alta morale” che dovrebbero avere i responsabili della cosa pubblica, richiamandosi alla Costituzione e agli inviti alla sobrietà formulati a più riprese da Napolitano. È giusto entrare nell’agone politico con richieste morali?

«Diciamo che l’onestà è richiesta a tutti e con maggiore urgenza a chi si assume responsabilità istituzionali, che sono ordinate al bene comune. Penso che sia una questione molto seria oggi. La perdita di credibilità etica di un politico non è solo un problema suo, è anche problema politico, nel senso che coinvolge la credibilità del suo ruolo pubblico e incide sulla vita delle istituzioni».

 

L’ostentazione della ricchezza e di comportamenti al limite è tollerabile in una società contemporaneamente malata di privacy e di visibilità?

«Un criterio di base è che il ruolo pubblico non può essere onestamente usato per “vantaggi” privati di singoli o di gruppi. Ma la società contemporanea sembra tollerare molte cose, anche contraddittorie, fino a queste forme di ostentazione. Temo che alla base ci sia un modo assai diffuso di intendere e giustificare tutto, comprese le istituzioni, in funzione del bene privato da cercare ad ogni costo. Se è così, non è una malattia leggera. In questione è il senso e il fine della società stessa, quello di condividere la vita».

a cura di Pietro Parmense

 

 

 

 

Informazione

 

Come ci vedono all’estero?

 

Le reazioni da Francia, Stati Uniti e Filippine

 

«Poche notizie sull’Italia nei telegiornali americani, dove si parla piuttosto di Haiti, Tunisia, Sudan e crisi economica. Qualcosa di più si trova sui siti del New York Times e di altre riviste». Così ci dice dagli Stati Uniti un’amica italiana giornalista.

Sulle pagine del New York Times fra il resto troviamo: «In Italia, dove una facciata di moralità cattolica nasconde un’alta tolleranza di rapporti illeciti, Berlusconi è stato segnato dagli scandali per anni. Ma questa volta le cose cominciano ad apparire diversamente».

E Adriane, una giovane americana, ci scrive: «Noi ci siamo trovati nella situazione di non voler essere identificati con il comportamento di una singola persona nel caso di Bush: quindi, capiamo».

 

Da Manila, William Esposo, tra i più autorevoli editorialisti delle Filippine, ci scrive: «Le recenti rivelazioni sul premier italiano Silvio Berlusconi ricordano ai filippini il regime vergognoso dell’ex presidente Joseph Estrada, famoso non soltanto per le sue attività lucrative illegali, ma anche per le sue trasgressioni sessuali e l’abitudine all’alcol. Quindi noi filippini possiamo capire facilmente gli italiani in questi tempi in cui i loro valori morali vengono offesi dagli scandali sessuali di una delle più alte cariche dello Stato. Il premier di un Paese cattolico come l’Italia deve rendere conto di questo scandalo. Far finta di niente sarebbe dare il via libera a tale tipo di comportamento ai massimi livelli del governo. Niente corrompe meglio la fibra morale di una nazione che vedere i propri capi trasgredire palesemente».

 

Da Parigi, Jean-Michel Merlin, editorialista di Nouvelle Cité: «Gli ultimi problemi giudiziari di Silvio Berlusconi sono stati oggetto di articoli su tutti i giornali francesi. In altri Paesi europei, si afferma, con la storia del Rubygate, il presidente del Consiglio sarebbe stato immediatamente spinto a dare le dimissioni, se non addirittura perseguito per sottrazione di minore.

«Secondo quanto scrive Le Monde il “fenomeno Berlusconi” non sarebbe che l’applicazione diretta della tradizione italiana della “raccomandazione”. Mentre il quotidiano cattolico La Croix titola: “Di fronte a Berlusconi, i cattolici esigono dalla Chiesa più coraggio”. Una studentessa romana afferma nell’articolo: “La Chiesa non deve più chiudere un occhio perché con questo governo ha ottenuto delle garanzie”, quasi a rivalutare il potere della Chiesa nella vita politica italiana. “Su quali valori potranno poggiare i giovani che hanno soltanto la prospettiva di una vita precaria?”, si chiede infine un intervistato».

 

a cura di Vittoria Siciliani

 

 

 

 

Femminile

 

Belle e senz’anima?

 

Quali donne popolano i media?

 

La canzone di Cocciante Bella senz’anima andrebbe riesumata come colonna sonora di queste settimane, dove donne belle, avvenenti e giovani regnano ancora di più sugli schermi televisivi e sulle pagine dei giornali, infarcendo di gossip le nostre conversazioni quotidiane. Di loro crediamo di sapere tutto o quasi, nessun particolare ci è stato risparmiato; anzi, ogni giorno se ne aggiungono sempre di nuovi come in una fiction, dove il colpo di scena è sempre in agguato e gli spettatori sono in fibrillante attesa. Perché? Perché questo scempio? Perché la barbarie mediatica?

Le minuziose intercettazioni pubblicate per spiegare le imputazioni del nostro premier, hanno davvero scoperto un mondo femminile alla deriva? O è altrettanto vero che neppure l’universo maschile è risparmiato se a farla da padrone sono quelli che, soldi alla mano, possono permettersi piacere e successo, suscitando persino invidia ed emulazione? Queste storie feriscono tutti.

 

«Spengo la tv per preservare mia figlia, e non vedo il telegiornale. Provo a recuperare brandelli di stima per il nostro genere», è lo sfogo di Carlo, padre romano, incalzato da insistenti domande adolescenziali. «Sul lavoro le battute scadono in insulti con facilità. Sono arrabbiata. Cancellata la mia creatività, i progetti di successo, il sacrificio»: una dichiarazione indignata, invece, quella di Mapi, giovane consulente informatica milanese. Ferite che bruciano e che hanno dalla loro anche i numeri. Secondo il rapporto Global Gender Gap 2010, l’Italia è al 97° posto su 132 Paesi per partecipazione e opportunità. Ultima in Europa per l’occupazione femminile, solo l'8 per cento delle impiegate mamme è dirigente, il 27,1 per cento delle donne occupate abbandona il lavoro dopo la maternità. Sul fronte politico abbiamo cinque donne ministro, due presidenti di regione, due sindaci di capoluoghi di provincia e tredici presidenti di provincia. 

 

Il sovvertimento dei valori è sotto gli occhi di tutti: il denaro e l’apparire sono sirene ammaliatrici che incitano i genitori a buttare nella mischia le figlie e giustificano con un «che male c’è?», le aspirazioni di giovani studentesse. A fronte una silenziosa maggioranza di donne comuni che non riesce spesso a guadagnarsi né uno stipendio adeguato, né un trafiletto dignitoso per il coraggio di una quotidianità non sempre brillante. «Di fronte alla realtà di queste settimane – denuncia suor Eugenia Bonetti, dell’Unione Superiori maggiori d’Italia – ci sentiamo veramente umiliate e anche indignate per come stanno strumentalizzando la donna, come oggetto, come merce, mentre la donna non è solo corpo, ma mente, cuore, accoglienza e dedizione».

 

«Perché non ci ribelliamo?», ripete allo sfinimento la regista Lorella Zanardo, che al Corpo delle donne ha dedicato un documentario e un progetto educativo. Perché la rivoluzione silenziosa dell’onestà e del merito non può diventare un contagio diffuso?

Eppure su Facebook, in poche ore, 40 mila ragazze hanno sostituito la foto del profilo con quello di donne che hanno dato lustro alla storia: quindi Carla è diventata Marie Curie e Simona ha il viso di San Suu Kyi. Mentre il ministro per le Pari opportunità, Mara Carfagna, ha firmato un protocollo d'intesa con l'Istituto di autodisciplina pubblicitaria per contrastare rappresentazioni «volgari, violente e indecenti» delle donne nelle pubblicità. Intanto per il 13 febbraio si prepara una manifestazione nazionale. Speriamo non finisca tutto lì e che nell’agenda politica, come nei salotti mediatici, si torni a parlare dei veri problemi delle donne e di un’emergenza educativa che più che di tagli necessita di investimenti.

 

a cura di Maddalena Maltese

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons