Per conoscere l’autrice

Due domande ad Adriana Cosseddu *
Adriana Cosseddu

Come giunge un docente di Diritto Penale a considerazioni sul “diritto relazionale”, “diritto della fraternità”, “diritto della reciprocità e della gratuità”, “diritto della solidarietà”? Potrebbe dirci qualcosa del suo percorso professionale nell’ambito della ricerca?

 

Vorrei puntualizzare che non si tratta tanto di declinare il diritto secondo accezioni diverse, per quanto estremamente significative, quanto piuttosto, così per me, volgere il percorso scientifico alla “radice” di una ricerca che possa offrire risposte per l’oggi del diritto, attraversato da una crisi profonda. Mi sono sentita interpellata dalle pagine di autorevoli giuristi, come Bobbio ad esempio (L’età dei diritti), o di illustri penalisti che hanno di recente messo in luce i limiti di un diritto che manca di effettività nell’attuazione. Se ne invoca l’efficacia attraverso la previsione di norme, ma se ne constata al contempo l’insufficienza. Si fa strada nel post-moderno il “nichilismo giuridico”, espresso quale formula di “sintesi” a fronte di un diritto che pare aver smarrito il “dove” e il “perché”, ridotto a mera «produzione di norme». Tutto ciò mi ha posto dinanzi a una domanda : che cosa ne è dell’antico insegnamento del giurista Ermogeniano, «omne ius causa hominum constitutum est» (D.1,5,2) ? Il diritto costituito dall’uomo e per l’uomo, di cui – ha detto Ferrajoli ricordando Bobbio (La lezione di Bobbio) – noi portiamo la responsabilità anche come cittadini, è riducibile a mera “forma”? Il diritto, la cui essenza si incentra nel rapporto ad alterum, si “dissolve” dunque nelle “procedure” da osservare a garanzia della “forma”, tipica delle norme giuridiche? Domande di senso, essenziali credo in riferimento soprattutto a un Diritto penale, che stigmatizza comportamenti e responsabilità della persona umana come tale e li sanziona, assolvendo a una funzione ritenuta di orientamento culturale. Ma se così è, l’uomo non può non appartenere per la sua stessa umanità alla sfera del diritto, che ne detta le regole per la vita sociale. Del resto, le stesse categorie giuridiche, i ruoli definiti nell’ordinamento, quali le parti di un processo, il reo e la vittima, il danneggiato e il responsabile, genitori e figli, acquirente e venditore ecc., costituiscono, è vero, necessarie astrazioni nella formulazione normativa, ma riflettono al contempo i contorni di una situazione di vita, i tratti di un volto umano. Una ineludibile ricerca, soprattutto nell’oggi, interpella il giurista dinanzi a una conflittualità che le norme non risolvono, a rivendicazioni e diversità culturali, che ancor prima attendono un riconoscimento nella quotidianità delle relazioni.

 
C’è stata una tappa particolare nel corso della sua carriera accademica e di ricerca che l’ha portata a sedimentare le convinzioni esposte nel suo contributo?

 

Riprenderei da quella “radice” che mi ha condotto a “ripensare” e riflettere sul fondamento stesso del diritto. Se posso però introdurre una nota personale, direi che da sempre nel cammino di ricerca, ma soprattutto ultimamente, ho avvertito l’importanza dell’“apertura” ai più diversi apporti della dottrina: accogliere il pensiero dell’altro come contributo e arricchimento in un percorso comune, senza “a priori” e senza esclusioni. Una conferma mi è venuta da una circostanza particolare , una “tappa”, come lei la chiama: posta dinanzi a un interrogativo, ne ho colto tutta la novità. Si trattava del titolo del primo Convegno internazionale, organizzato da Comunione e Diritto, che si è svolto nel 2005: «Relationships in law: is there a place for fraternity?». La domanda è diventata ricerca di risposta, essendomi stato chiesto di intervenire e curare la sessione “Criminal Justice”. In quella sede, dinanzi al necessario confronto con altri ordinamenti ed altre esperienze giuridiche presenti nel mondo, ho avvertito l’importanza di aprire il mio “percorso” universitario a una dimensione insolita, forse dimenticata: l’universitas, capace come tale di imprimere all’istituzione accademica e alla ricerca l’essenza di un “dialogo” tra i saperi, pur nelle dovute distinzioni. Il pensiero si apriva a un confronto ineludibile anche tra discipline giuridiche, differenti per tradizione e latitudine. Una sfida, direi: o ci si accoglieva nella reciprocità e ricchezza di ogni contributo, o sarebbe emerso un divario incolmabile, dinanzi a realtà e concezioni giuridiche distanti tra loro. Proprio il Diritto penale in quel contesto internazionale lasciava intravvedere un’esigenza condivisa e con essa la possibilità di una nuova lettura. Infatti, in qualunque conflitto, dalla dimensione del rapporto intersoggettivo a quella internazionale, la domanda di giustizia dinanzi all’offesa attende sempre una risposta; al contempo, si chiede al diritto di non dimenticare l’essere persona di chiunque delinqua. Dunque, un binomio insanabile? Nella ricerca di risposte la “radice”, da cui muovere, scaturiva nel corso del Convegno dall’emergere di una essenziale dimensione relazionale del diritto, capace di fondarne una sua necessaria “rilettura”. Un esempio per tutti: l’espressione formale “infrazione-legge” si può tradurre piuttosto nell’offesa, che pone dinanzi vittima e reo , soggetti di un rapporto che segna al contempo una ferita profonda anche nelle relazioni di cui vive il tessuto sociale. Ecco allora l’interrogativo iniziale, da me sollevato anche nel secondo Convegno internazionale, rivolto nel 2009 a giovani giuristi – «Law in search of justice»: può il diritto essere solo “tecnica” tra le altre tecniche, “forma”, pur necessaria, ma dimentica di una materia capace di coniugare norma e vita, se è vero che il diritto regola ed informa di sé la vita della società nelle relazioni? L’orizzonte si è così allargato nella ricerca di possibili risposte, e mi ha offerto nuovi”campi”dove, per usare le parole di Kaufmann (Riflessioni preliminari su di una logica ed ontologia delle relazioni. Fondazione di una teoria personalista del diritto), la persona diventa l’«“indisponibile”» per il diritto, ma vi si colloca (secondo la bella espressione in Rechtsphilosophie in der Nach-Neuzeit. Abschiedsvorlesung) come «complesso di rapporti», nella sua imprescindibile essenza relazionale, che non può non imprimersi anche al diritto stesso.

 

*Adriana Cosseddu è professoressa di Diritto penale commerciale presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Sassari. Rimandiamo al suo articolo Comunione: “spazio condiviso” per un dialogo possibile tra economia e diritto, "Nuova Umanità" XXXI (2009/6) 186, pp. 757-782.

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