Pechino cede alle proteste, ma fino a quando?

Di fronte all'impressionante afflusso di manifestanti intorno al Parlamento di Hong Kong, il governo cinese ha rinviato la discussione del controverso disegno di legge sulle estradizioni verso la Cina continentale

La battaglia lungo le strade di Hong Kong è stata all’inizio, in fondo, “contenuta”: le forze di sicurezza hanno usato manganelli e spray al peperoncino per cercare di impedire ai manifestanti, armati di ombrelli e occhiali protettivi, di costruire barricate. Poi, all’avvicinarsi dei manifestanti al palazzo del Parlamento, dove si doveva discutere (in anticipo sul calendario previsto) la legge sull’estradizione verso il “resto” della Repubblica popolare cinese, la battaglia s’è fatta più dura.

Poi c’è stata la marcia indietro del governo: il rinvio della discussione. Ma ciò non ha soddisfatto i manifestanti che chiedevano un abbandono puro e semplice del testo, in cui vedono una violazione dello stato di diritto di cui gode Hong Kong, il cui ordinamento giuridico è ancora autonomo rispetto a quello della Cina. E così la repressione della polizia s’è fatta più dura, con proiettili di gomma e lacrimogeni, provocando decine di feriti.

Nonostante la fortissima presenza della polizia, l’afflusso di manifestanti ha ricordato la “rivolta degli ombrelli” dell’autunno 2014, quando per 19 giorni l’Ammiragliato era stato occupato da decine di migliaia di giovani che chiedevano «una vera democrazia». Nonostante un tentativo di dialogo tra Carrie Lam, allora capo segretario del precedente governo e una delegazione studentesca, l’enorme mobilitazione non era riuscita, come si ricorderà, a raggiungere l’auspicato obiettivo di raggiungere un vero suffragio universale a Hong Kong.

C’è anche un braccio di ferro con il capo dell’esecutivo di Hong Kong, Carrie Lam, considerata dai manifestanti la longa mano di Xi, la quale pensava che il disegno di legge potesse comunque passare, ignorando la marcia di un milione di persone di domenica, contando sulla polizia per gestire le proteste. Ma l’opposizione a questo testo non è solo degli studenti, è molto più vasta, e questo forse fa un po’ di paura al governo. Almeno un migliaio di imprese locali e sindacati studenteschi, insegnanti, autisti di autobus e assistenti sociali hanno infatti annunciato la loro intenzione di protestare contro questo disegno di legge in un modo o nell’altro. Le multinazionali hanno permesso ai loro dipendenti di lavorare da casa mercoledì, cioè consentendo loro di manifestare. Anche la Chiesa cattolica ha invitato il governo ad abbandonare questo disegno di legge.

Nell’accordo del 1984 che avrebbe visto Hong Kong rientrare in Cina nel 1997, si varò il principio “un Paese, due sistemi”. Ciò significava che, pur diventando parte della Cina, Hong Kong avrebbe goduto di «un alto grado di autonomia, tranne che negli affari esteri e della difesa», per 50 anni. Di conseguenza, Hong Kong ha un proprio sistema giuridico e confini e i diritti, tra cui la libertà di riunione e la libertà di parola, sono protetti. Hong Kong gode ancora di libertà sconosciute nella Cina continentale. Ma una parte della città sostiene che la Cina vuole intromettersi negli affari di Hong Kong, che degli imprenditori sono stati costretti a chiudere, che gli artisti sono sottoposti a una crescente pressione per autocensurarsi e così via.

Altro punto controverso, la riforma elettorale: il capo di Hong Kong è attualmente eletto da un comitato elettorale composto da 1.200 membri: un corpo principalmente pro-Pechino scelto da appena il 6% degli elettori idonei. Il governo cinese aveva promesso che nel 2014 avrebbe permesso agli elettori di scegliere i loro leader da una lista approvata da un comitato pro-Pechino, ma i critici l’hanno definito una “democrazia fittizia” ed è stata respinta.

Tra 28 anni, nel 2047, scade la “Legge fondamentale”, e ciò che accadrà dell’autonomia di Hong Kong non è chiaro.

Nonostante la maggior parte delle persone a Hong Kong sia cinese e sebbene il territorio faccia parte della Cina, la maggioranza delle persone non si identifica come cinese. La differenza è ancora più marcata tra i giovani: un’indagine del 2017 ha indicato che solo il 3% delle persone di età compresa tra 18 e 29 anni si definiva cinese. Alcuni giovani attivisti sono arrivati a chiedere l’indipendenza di Hong Kong dalla Cina, cosa che ovviamente allarma il governo di Pechino. E i manifestanti oggi ritengono che la legge sull’estradizione, se approvata, porterebbe il territorio maggiormente sotto il controllo della Cina.

In realtà esiste una ricca storia di dissenso ad Hong Kong, che risale a molto lontano, come nel 1966, quando scoppiarono dimostrazioni dopo che la Star Ferry Company aveva deciso di aumentare le sue tariffe. Le proteste si trasformarono in rivolte, fu dichiarato il coprifuoco e migliaia di soldati scesero in piazza. Ma poi non ci fu nulla di fatto. E così nel 2014. Viene allora da chiedersi se le proteste funzionino in Cina, o se dopo l’esplosione si torni alla calma e tutto finisca lì. Serve comunque cautela nell’osservare i “fatti cinesi”.

 

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