Patrick Zaki, le ragioni della liberazione

Lo studente egiziano dell’Università di Bologna, condannato il 18 luglio a 3 anni di carcere e graziato dal presidente egiziano al-Sisi il giorno dopo, è arrivato nel capoluogo emiliano nel pomeriggio di domenica 23 luglio.
Patrick Zaki
(AP Photo/Tarek Wajeh)

L’esultanza per la felice conclusione della vicenda è spontanea nei confronti di Patrick Zaki dopo questi oltre 3 anni, dal suo arresto al Cairo il 7 febbraio 2020 fino alla scarcerazione del 20 luglio scorso. La vicenda di questi giorni, della liberazione di Zaki, è evidentemente molto più complessa di come una parte rilevante dei media italiani e alcuni politici l’hanno presentata, quasi un merito esclusivo della politica diplomatica del governo italiano. Sebbene la liberazione di Zaki sia indubbiamente anche frutto di questo impegno italiano.

Senza entrare nel merito di quasi due anni di carcerazione preventiva basata su pesanti accuse in gran parte infondate e cadute, è doveroso ricordare che la condanna a 3 anni di carcere non decade con il decreto di grazia presidenziale, che estingue la pena ma non il reato. Per il tribunale speciale per la sicurezza dello Stato (non un tribunale ordinario, quindi), Zaki è colpevole di “diffusione di notizie false dentro e fuori il Paese” soprattutto per un articolo sulla comunità copta egiziana, in cui in buona sostanza Zaki parlava di discriminazioni nei confronti dei cristiani copti.

No comment, qui, sul merito e la fondatezza della cosa o sul fatto che Patrick Zaki sia un cristiano copto; o sulle molte migliaia di perseguitati a causa dei diritti umani in Egitto.

La concessione della grazia da parte del presidente egiziano fa certamente parte delle sue prerogative, ma non è stata certo emanata ad hoc per Zaki. Il 16 luglio ricorre infatti la festa islamica di El Am El Hijri, il giorno dell’Egira del Profeta, e in questa data di inizio del calendario islamico (e nella ricorrenza, pochi giorni dopo, il 23 luglio, della rivoluzione di Nasser, che segna la nascita della repubblica egiziana) è usanza del presidente concedere la grazia ad alcuni condannati, soprattutto politici. Infatti, oltre a Patrick Zaki, il presidente al-Sisi ha graziato altre 4 persone, che non sono state oggetto di pressioni diplomatiche italiane. Invece, chi aveva reagito alla condanna di Zaki era stato un “Consiglio del Dialogo Nazionale”, al quale il presidente al-Sisi, che l’ha promosso e convocato un anno fa, tiene in modo particolare.

Il noto quotidiano egiziano Al Ahram titolava infatti il 19 luglio: “Il presidente grazia alcuni condannati, tra cui Patrick Zaki e Muhammad Al Baqer, in risposta all’appello del Dialogo Nazionale”. Che cos’è questo per noi misterioso Dialogo Nazionale? In sintesi, è un tavolo di trattativa e dialogo tra il regime e molte opposizioni (ovviamente, non tutte hanno accettato o sono state accettate) in vista di un nuovo “piano d’azione nazionale”, per cercare in sostanza consensi e mediazioni per affrontare i numerosi e gravi problemi del Paese. La condanna di Zaki del 18 luglio aveva scatenato diverse dimissioni fra i partecipanti al Dialogo, oltre alla presa di posizione contraria di 43 ong egiziane per la difesa dei Diritti umani, comprese Amnesty International e l’Egyptian Initiative for Personal Rights (Eipr) con cui Zaki collabora da diversi anni e che lo ha sempre sostenuto soprattutto a livello di assistenza legale. È stato il coordinatore generale del Dialogo Nazionale, il giornalista Diaa Rashwan, a chiedere un intervento di al-Sisi, nel senso della concessione della grazia. A questo poi vanno aggiunte le proteste ufficiali di mezzo mondo per la condanna di Zaki, compresi gli Usa e l’Ue, che hanno molto a che fare nel bene e nel male con l’Egitto: per il sostegno, il commercio (anche di armi) e le forniture energetiche, ma anche per i migranti (legali o illegali che siano).

Ed è forse a questo punto che si inserisce il lavoro diplomatico del governo italiano, che si è effettivamente dato da fare, anche grazie all’efficace mediazione del nuovo ambasciatore egiziano a Roma, Bassam Rady, fino a pochi mesi fa portavoce di al-Sisi e “molto ascoltato dal suo presidente”.

In Italia più di qualcuno ha voluto polemicamente insinuare che il rifiuto di Zaki di accettare un volo di stato per il rientro a Bologna esprima ingratitudine verso il governo. Preferisco sottolineare a questo riguardo due posizioni.

La prima è dello stesso Patrick Zaki, che appena rilasciato ha scritto sui social: «Ringrazio di cuore le organizzazioni della società civile, i partiti, le forze politiche e i personaggi pubblici che hanno chiesto il mio rilascio e quello di tutti i prigionieri di opinione. Ringrazio anche il Governo, il Parlamento italiano, la presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri che mi hanno sostenuto durante tutto il periodo di reclusione e il processo solo per essermi laureato in un’università italiana, pur non essendo cittadino italiano».

E la seconda è la risposta di Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International: «I difensori dei diritti umani sono persone indipendenti. Ringraziano e manifestano apprezzamento quando si fa qualcosa per loro, ciò che Patrick Zaki ha ampiamente già fatto, ma restano indipendenti dai governi, da qualsiasi governo». E ha poi aggiunto: «La decisione di Patrick è corretta e non capisco perché debba essere oggetto di polemiche, che servono solo a cercare, peraltro invano, di rovinare un momento di grande gioia».

Patrick Zaki è dunque arrivato a Bologna: per un breve periodo, ha detto. Poi tornerà in Egitto per sposare Reny Iskander, la sua fidanzata. A settembre.

Personalmente aggiungerei a questa storia una speranza, che molti in Italia, e non solo in Italia, continuano a nutrire: che anche per la tragedia di Giulio Regeni si possa trovare un modo diplomatico per ottenere giustizia.

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