Passione per la Chiesa

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Quando giunge a Roma per il Vaticano II come esperto al seguito di un anziano vescovo, il domenicano Yves Congar (1904-1995), uno dei maggiori teologi del XX secolo, ha pubblicato i suoi libri più importanti: I cristiani disuniti, Vera e falsa riforma della chiesa (che il futuro Giovanni XXIII ha letto e annotato), Per una teologia del laicato e La tradizione e le tradizioni; libri per i quali ha subìto restrizioni ed emarginazioni, insieme al suo maestro M.-B. Chenu e ad H. de Lubac – anch’ egli attivissimo al concilio -; titolari della temuta Nouvelle Théologie. In quello snodo storico tra conservazione a volte impaurita e sbarrata, ed aggiornamento sperimentale, nella febbre dell’ iniziativa giovannea, il teologo francese innamorato della chiesa, spirito libero, mente larga e acuta, non viene a far numero, e non sa ancora che è stato proprio Giovanni XXIII a volerlo a Roma. Amareggiato dai trascorsi ma pieno di speranza, e iniziativa, non percepisce ancora appieno di essere nella posizione privilegiata di chi non è incasellato, anzi tenuto libero a una certa distanza di osservazione, di ammirazione e di sospetto: può fare molto (lo farà) e niente, se ne lamenta, ma è proprio il fortunato servo inutile del Vangelo, come poi riconoscerà. Mio Dio, che mi avete condotto qui attraverso vie che non ho scelto, mi offro a voi per essere, se lo volete, lo strumento del vostro Vangelo in questo avvenimento della vita della chiesa, che io amo, ma che vorrei meno Rinascimento, meno costantiniana…; (…) sono una specie di ebreo errante, oggi qui, domani là. Sono come straniero, tagliato fuori da tutto ciò che ha una qualche forma di sicurezza e di pace per regolarità e utilità della vita. All’inaugurazione non risparmia critiche agli ecclesiastici scolpiti dalla regolarità dei loro esercizi di pietà e dai comportamenti di prudenza e di edificazione, si chiede se la Bibbia intronizzata potrà davvero parlare ed essere ascoltata. Comincia a guardare, valutare, giudicare, e lo fa a volte in modo troppo tagliente e aspro (pur essendo capace in certi casi di ricredersi e modificare la prima valutazione), anche eccessivo: il giudizio su Pio IX, totalmente negativo e squalificante, è inaccettabile, come quello, di sommario rigetto, su Pio XII. Poi qualcosa si scioglie, dopo la babele iniziale i vescovi imparano a conoscersi, lui stesso è fatto oggetto di stima e affetto da molti, meravigliandosene, e sente che lo Spirito è all’opera: Anche qui, al Concilio, ho come unica regola quella di lasciargli fare tutto. Un’ etica, teologale, anche nei minimi dettagli. Ho adottato come norma pratica di fare solo quanto mi è richiesto dai vescovi. Il Concilio, sono loro. Tuttavia, se un’ iniziativa portasse il segno di una chiamata di Dio, non esiterei ad accoglierla. Nel suo slancio intransigente di super-dotato Congar teme l’inerzia arroccata e la difesa intrattabile di ambienti curiali (i Romani, ma ci sono eccezioni, per tutte quella del futuro Paolo VI), però sa trasformare l’animoso timore in ardente umiltà: Mio Dio, che fin dal 1929-30 mi avete fatto capire che se la chiesa cambiasse volto, se semplicemente assumesse il suo vero volto, se fosse semplicemente la chiesa, tutto diventerebbe possibile sul cammino dell’unità, suscitate operai capaci, puri e coraggiosi per quest’opera che avete iniziato e che vi supplico di non abbandonare . Ma pensa che, in prospettiva, il rinnovamento verrà dai laici, i parenti poveri suo cruccio di rivendicazione e assillo teologico da molti anni; mentre cresce in lui la fiducia nelle aperture di Giovanni XXIII. Pessimista e insieme ottimista (uso categorie improprie, solo indicativamente) come tutti gli spiriti profondi, Congar sa essere amaro e fiducioso: Da anni considero come non ci si metta più, in nessuna occasione, davanti alla Parola di Dio in modo fresco e nuovo. Un ritorno alle fonti non si è veramente avuto; Vivere unicamente della grazia senza alcun appoggio o sicurezza umana, ecco il criterio con cui scelgo di vivere. Dio non delude, anche se spesso la sua grazia disorienta. Le mille pagine di questo diario del Concilio sono non solo, per gli storici, una miniera preziosa di notizie e nomi e fatti e note a caldo e in presa diretta, ma per il comune lettore l’eco viva dello spettacolo grandioso, e veramente umanodivino (i definitivi testi conciliari, sia i perfetti che gli imperfetti, lo testimonieranno), di un brulicare umano di grandezze, mediocrità, miserie, in un lavorio inizialmente caotico e sgomento, che prende poco a poco e prodigiosamente forma ordinata e si orienta efficacemente al dialogo (altro assillo congariano) con la cristianità non cattolica, le altre religioni, e il mondo contemporaneo. Il teologo sa che per stabilire uno spirito e una coscienza nuovi ci vuole tempo, ma deve ammettere che l’accelerazione è impensata: II Concilio è infinitamente utile. Il cammino che ha fatto percorrere è fantastico. Congar scrive le sue note con la libertà di chi le vuole pubblicate dopo il 2000, dopo la sua morte; scrive per testimoniare se non per la storia, ma le due linee convergono. E quando non si lascia sopraffare da ostinazioni pregiudiziali, come le sue opinioni alquanto restrittive sul ruolo e la funzione della Vergine Maria nell’economia della, salvezza, o quelle oscillanti su Paolo VI, che compie sì grandi gesti ecumenici ma non ne avrebbe la teologia né la struttura intellettuale (e non è vero), ritorna semplice e aperto: sa emozionarsi agli scavi della tomba di san Pietro, ad una mostra di documenti originali del Concilio di Trento, e nel bagno di vera umanità fatto in un viaggio in treno insieme a operai italiani che, poveri emigranti, si autogratificano mangiando in una volta quanto a lui basterebbe per due giorni. E tutta questa sua vicenda di osservatore- attore-strumento di Dio è punteggiata da quella che chiamerei due evidenze fisico-spirituali molto forti: la prima è una spossatezza patologica che sembra impedirgli tutto e invece lo sprona a tutto tenendolo basso, umile (è l’avvisaglia di una malattia che lo relegherà in sedia a rotelle per lunghi anni fino alla morte), e gli fa dire con san Paolo che la potenza si manifesta, nella debolezza; la seconda è una capacità di analisi profetica, a contatto con le persone, non casualmente affinata da tutti i predetti ostacoli: (…) mons. Wojtyla fa alcune osservazioni di un’estrema gravità.Vengono considerate solo, dice, le questioni poste dalla nuova situazione mondiale (…); ma questo mondo moderno dà anche delle risposte a questi interrogativi. E noi dovremmo rispondere a queste risposte, perché esse mettono in discussione la nostra stessa risposta (…) Wojtyla fa una grandissima impressione. La sua personalità si impone. Da essa emana un fluido, un’attrattiva, una certa forza profetica molto calma, ma irresistibile . E sul papa attuale dice fulmineamente cose che sembrano appunto descrivere l’uomo che ha assunto il papato senza appropriarsene, in spirito di servizio, non solo il giovane teologo di quarant’anni fa: Fortunatamente c’è Ratzinger. È ragionevole, modesto, disinteressato, di buon aiuto. L’impaziente ha imparato la prudenza: (a proposito della Dichiarazione sulla libertà religiosa) Credo che Dio persegua, attraverso la storia umana, una liberazione dell’uomo.Ma noi abbiamo servito questa liberazione? Sì, ne sono convinto, almeno per quanto dipende da noi. Ma qualcuno abuserà di questa dichiarazione per favorire liberazioni ingannevoli o piegare la vera libertà in altre direzioni, dice profetizzando le tempeste del post- Concilio. E alla fine dei lavori constata la diversa atmosfera, più religiosa rispetto al trionfalistico inizio, anche se non si lascia sfuggire la nota umoristica: Il papa entra a piedi, con la mitra, una croce al posto del pastorale nella mano sinistra. (…) Si canta. Non un applauso. Non ci sono guardie né corteo della corte pontificia. C’è proprio qualcosa di cambiato. È l’ingresso di un vescovo, di un pastore, l’ingresso di un sacerdote, non più di un principe. (…) Ci sono anche sopravvivenze del passato: tutti i gentiluomini in farsetto, pantalone corto e basso, spada al fianco, decorazione del toson d’oro al collo. Alcuni con acconciature incredibili, altri alla Enrico II o Enrico IV. Sembra che alcuni ritratti d’epoca siano usciti dalle loro cornici, siano scesi dalle loro tele e si siano messi a camminare. Per sé, insieme alle difficoltà fisiche, diagnostica evangelicamente la realtà del servo inutile: Sono sopraffatto, da una parte, dalla sensazione della mia impotenza, della mia mediocrità intellettuale spirituale e, dall’altra, dalla constatazione dell’immenso credito e dell’interesse amichevole di cui sono oggetto. Potrebbe inorgoglirsi: sa di aver lavorato moltissimo, lasciando la sua impronta ovunque, e qualcuno arriva a dirgli che il Concilio nei suoi risultati è soprattutto merito suo. Ma Congar sa che ciò oltre che eccessivo è falso: Ho sempre ritenuto che non occorresse impadronirsi di alcunché, ma contentarsi di ciò che ci è dato (…)b. Ho dunque preso ciò che mi era dato, mi sono sforzato di fare bene (?) quello che mi veniva, chiesto. Ho preso poche iniziative, troppo poche, credo. Dio mi ha colmato. Mi ha dato a profusione, infinitamente al di là di meriti rigorosamente inesistenti.

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