Partiti? Speriamo che tornino

Beppe Grillo fa il buffone, e lo fa bene. Sia inteso senza la minima ombra di disprezzo, con una punta di invidia, anzi. Grande mestiere, nobile arte. Si radica nella figura del giullare, che divertiva il re, e suscitava ilarità nel rovesciare l’alto in basso e il basso in alto: detto da Socrate, costava la testa; sulla bocca del pagliaccio, guadagnava una mancia. Ma questa è solo una metà della medaglia; anche i buffoni, e non solo le candidate a Miss Italia hanno un lato B. E dalla gobba traggono, quando meno te lo aspetti, il morso verace. Verità spesso mescolata a sciocchezze (e chi saprà distinguere l’una dalle altre?), a volte liberatrice, a volte crudele, fastidiosa sempre. Il sito: un nuovo posto per parlare e fare politica Il sito Internet di Beppe Grillo è tra i più frequentati, proprio perché, ben prima del Vaffa-day dell’8 settembre, dava informazioni utili riguardanti tanti aspetti della vita quotidiana nei quali i diritti dei cittadini possono venire calpestati: si è occupato, solo per fare degli esempi, dei piccoli azionisti, di utenze telefoniche. Molta gente ha avuto modo, in sostanza, di imparare a considerare Beppe Grillo come uno che sta dalla parte dei cittadini e che conosce la lotta per la sopravvivenza quotidiana, mentre il politico tradizionale non sa neppure quanto costi un chilo di pane. Il blog di Grillo è diventato – in Internet – un luogo di scambio di informazioni, di interazione tra cittadini, di espressione di bisogni, difficoltà, idee, desideri: quel che una volta poteva essere la sede del partito. Al punto da consentire a Grillo di mettere insieme una sorta di programma che ha presentato bello rilegato, nel giugno dello scorso anno, al nostro dipendente – come Grillo lo chiama – Romano Prodi. Allora: c’è il programma, c’è il consenso, c’è un embrione di organizzazione territoriale: si capisce che oggi, dopo il V-day, qualcuno sfidi Grillo a fare un partito; e si cadi pisce che siano soprattutto i politici a spingerlo in questa direzione, proprio perché, in tal modo, il fenomeno verrebbe normalizzato: che problema ci sarebbe ad avere un partito in più, in un Paese che già ne alberga una trentina? Vero è che, così facendo, Grillo snaturerebbe ciò che finora ha messo in piedi. I punti del programma grilliano, infatti, non sono di parte: giusti o sbagliati, condivisibili o meno che siano, riguardano il modo con il quale funziona il sistema politico, e precedono la scelta di una parte; si propongono come garanzie di diritti civili e politici, garanzie che ogni cittadino deve avere, indipendentemente dal partito per il quale vota. Città nuova, prima delle elezioni politiche dell’anno scorso, scrisse che esistevano situazioni gravi che intaccavano i diritti di tutti (per esempio, l’attuale legge elettorale): questo giornale diceva in maniera razionale e costruttiva qualche cosa che ora Grillo grida in maniera esasperata e distruttiva.Ma i contenuti, in parte – solo in parte – coincidono. Perché Grillo fa paura? L’offensiva delle liste Tra i grillanti, dopo l’8 settembre, prosegue il dibattito, soprattutto intorno all’idea di creare delle liste civiche collegate, in qualche modo, a Beppe Grillo. Qualcuno ha parlato di lista civica nazionale. L’idea, dal punto di vista grilliano, che vorrebbe distruggere i partiti, appare francamente come un controsenso. Una lista nazionale deve necessariamente presentarsi come una potenziale forza di governo, avere idee per la politica economica e la politica estera, avere una propria cultura politica: basta chiamarla lista civica perché essa sia qualche cosa di diverso dal partito? Un’altra ipotesi sembrerebbe più percorribile. Grillo esorta a creare liste civiche, delle quali egli si propone come una sorta di controllore etico-democratico: darebbe a ciascuna un bollino di qualità, dopo avere controllato che obbediscano a due condizioni: che non candidino pregiudicati né iscritti ai partiti. Ci sono già stati momenti in cui le liste civiche hanno avuto un ruolo importante in Italia: momenti di distacco forte tra opinione pubblica e politica, che coincidevano con una debolezza della politica stessa. Quando il distacco tra i rappresentanti politici e i cittadini si fa troppo grande, infatti, i cittadini tendono ad auto-organizzarsi, o a premiare le iniziative di chi si presenta con un volto nuovo. Generalmente, però, anche se la lista civica vince, dopo un certo periodo deve cominciare a contrattare il proprio futuro con i partiti; mentre infatti la lista ha un carattere spontaneo, il partito è attrezzato per una presenza permanente, e la lista deve farsi partito o entrare in un partito, magari rinnovandolo, ma assumendone in gran parte la forma. Le liste civiche, in sostanza, sono state finora generalmente riassorbite nel sistema dei partiti; possono però avvicinare alla politica cittadini che precedentemente ne erano estranei, e possono introdurre nel sistema politico tematiche nuove e forme innovative di rapporto con la società. Se le cose seguissero questo schema, dunque, le liste grilliche andrebbero a nutrire, nell’arco di una legislatura, i partiti già esistenti. Ma l’impatto più rilevante potrebbe esserci al momento del voto; se il movimento suscitato da Grillo si consolidasse e riuscisse a tenere fino alle elezioni, potreb- be incidere sensibilmente sulle attuali aspettative di successo dei partiti, catalizzando il voto di protesta: oltre ai delusi dei vari partiti, le liste grilliche potrebbero richiamare al voto molti cittadini che nelle precedenti elezioni si erano astenuti: ora tornerebbero alle urne perché il loro rifiuto dei partiti troverebbe uno strumento efficace. Qualunque sia in futuro la sorte delle liste civiche, gli equilibri politici attuali ne verrebbero cambiati, forse pesantemente. A questo punto, Grillo accetti un sommesso consiglio: resista alla tentazione – se ce l’ha – del potere: se il buffone sbeffeggia la corona, fa ridere del re; ma se la mette in testa, fa ridere di sé. Piuttosto, mantenga la sua funzione critica, alimenti la capacità reattiva dei cittadini e i loro strumenti di controllo. E abbandoni il linguaggio offensivo che ha accentuato in quest’ultimo periodo; capisco che la stupida arroganza così diffusa nel nostro ceto politico faccia perdere la pazienza, ma con gli insulti si ottiene solo di abbassare ulteriormente il livello della convivenza, e si colpiscono anche i molti onesti e capaci che, in politica, continuano a coltivare degli ideali. È con questi che bisogna lavorare. Grillo li esclude, rinunciando ad una risorsa senza la quale, nel presente e nel futuro, non si può fare alcuna politica diversa. Tre chiavi di lettura Non possiamo permetterci di perdere anche i buoni. Dove stanno? Come distinguerli? Anche sant’Agostino aveva questo problema; e non pensiamo che ai suoi tempi fosse più facile. Ma egli riuscì a costruirsi un criterio di valutazione, che potremmo chiamare spirituale ed esistenziale, in base al quale ci sono due tipi di politici: quelli che sono mossi dall’amore vero, che è amore fraterno, altrui- sta e sociale; e quelli che sono mossi dall’amore proprio, egoista e privato. I primi compongono la città di Dio; i secondi la città terrena; le due città sono mescolate e indistinguibili: nello stesso parlamento ci sono i membri dell’una e quelli dell’altra, credenti e non credenti non importa, mescolati dentro i diversi schieramenti. Ma solo la città di Dio è una vera città, perché ha l’amore sociale; solo questi politici tengono in piedi le istituzioni, i partiti, le diverse culture politiche; gli altri sono parassiti, che usano ciò che i primi costruiscono, per il proprio interesse privato. Dobbiamo sapere che ci sono gli uni e gli altri. Dobbiamo chiamarli, e lavorare con quelli che rispondono, e sono disposti a mettersi in gioco insieme ai cittadini. È quello che anche il Movimento politico per l’unità di Chiara Lubich, di cui spesso si dà notizia in queste pagine, sta cercando di fare. Il secondo criterio o chiave di lettura è di tipo storico. La storia ha conosciuto diversi tipi di partiti. Quelli popolari o di massa, che si sviluppano nelle democrazie contemporanee (e che spesso sono costruttori delle democrazie stesse) nascono per mettere insieme i soggetti poveri e deboli; questi, diventando coscienti della propria condizione, attraverso il partito intendevano supplire, con la forza del numero, alla mancanza di forza economica e di potere sociale che erano appannaggio, tradizionalmente, delle classi più forti. I partiti sono dunque strumenti privati e volontari, ma politici, al servizio della sovranità dei cittadini, in quanto organizzano la forza della cittadinanza, cioè quella forza per la quale ogni cittadino è uguale all’altro, e può esprimere la propria differenza, la propria idea, il proprio progetto, non solo senza prevaricare sugli altri, ma solo se, e proprio perché, anche tutti gli altri si esprimono nelle stesse condizioni. I partiti sono dunque strumenti (non gli unici) che danno un lo- ro specifico contributo affinché il cittadino possa dare realizzazione ai princìpi costituzionali di libertà e uguaglianza nell’esercizio dei suoi diritti e doveri politici. Se si pensa che oggi i partiti non riescano a dare realizzazione a tale obiettivo, vuol dire che non sono più veri partiti, che sono diventati, almeno in parte, altra cosa: comitati d’affari, rappresentanze private, strumenti per la conservazione di un potere di casta, ecc. Il problema, allora, è di restituire ai partiti esistenti la loro originaria capacità, o di farne di nuovi, o di inventarsi qualche cosa che compia la stessa funzione (1). Il terzo criterio si potrebbe chiamare pratico, nel senso delle azioni buone da compiere insieme. L’attuale reazione contro i partiti ricorda, per certi aspetti, quella di quindici anni fa, ai tempi di Tangentopoli. Con alcune importanti differenze. La più importante è forse legata al fatto che allora, agli inizi degli anni Novanta, si avvertiva il senso di un cambiamento epocale a livello mondiale, collegato al crollo di alcuni regimi, alla crisi delle ideologie, alla fine del confronto tra i blocchi Est-Ovest; in questo contesto, anche la pesante crisi di credibilità di tanta parte della classe politica italiana poteva venire vissuta, nonostante il dramma, come una opportunità per ricominciare. Ma anche se alcuni obiettivi di estrema importanza sono stati raggiunti, a prezzo di grandi sacrifici, come la moneta comune europea, molte importanti occasioni sono state sprecate. Non è stata attuata una effettiva razionalizzazione e semplificazione del sistema politico (pensiamo alle due Camere: fotocopia l’una dell’altra); non abbiamo amministrazioni pubbliche efficienti; siamo ancora lontani dall’avere realizzato le infrastrutture di cui il nostro sviluppo avrebbe bisogno; viaggiando da Nord a Sud si ha ancora la netta impressione di attraversare due Paesi diversi. Una parte rilevante delle risorse, dei mezzi e dei tempi a disposizione della politica sono andati sprecati, in ogni legislatura, per disfare quel che il governo precedente aveva fatto. Che cosa ci manca? Ci manca il Paese, ci manca il senso profondo di unità, di identità, di solidarietà nazionale per cui le differenze politiche diventano risorse: si vota, si cambia, si corregge ma, nell’insieme, ogni nuovo governo aumenta il patrimonio di tutti, aggiunge un mattone alla costruzione del passato. Ci manca il senso della comune appartenenza e dell’unità. E non possiamo più trovarlo nella retorica patriottica e in quella resistenziale; e neppure nelle appartenenze ideologiche di una volta (che dividevano, certo, ma anche univano); le differenze sociali ed economiche sono troppo grandi e le sperequazioni troppo ingiuste perché ci possa unire il mercato. Dobbiamo trovare nuove, vere, condivise ragioni di unità. La crisi è molto più profonda di quello che sembra, perché tocca le ragioni stesse della vita associata, del nostro essere una società. Le manchevolezze della dirigenza politica infatti sono lo specchio delle manchevolezze del sociale quotidiano: non si dà, nel nostro caso, una politica cattiva che opprime una società buona. La nostra società ha esattamente – nel male e anche nel bene, che non manca – la politica che si merita. La deformazione infatti non è solo dei partiti, ma di strati ben più vasti della società. Siamo convinti però che esistono le risorse ideali, umane, culturali per imprimere una svolta. E molto opportuna appare la scelta del tema della Settimana Sociale del 2007, Il bene comune oggi: un impegno che viene da lontano; è utile e corroborante prendere coscienza della forza della tradizione che ha elaborato l’idea del bene comune, nel momento in cui ci si prefiggono nuovi compiti. Compiti che oggi partono, come cento anni fa, dalla costruzione di un sociale diverso, più personalistico e maturo, capace di esprimere una politica che sappia cogliere le possibilità della democrazia. Rimbocchiamoci le maniche: mai come oggi coloro che vivono una cultura dell’unità hanno avuto cose da fare e da dire.

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