Parola d’ordine riconvertire

Piemonte: a Domodossola un comitato di mamme s’insedia nell’aula consiliare del comune per protesta contro la chiusura dei reparti di pediatria e ostetricia-ginecologia. Puglia: il governatore, Raffaele Fitto, in visita in varie città della regione, raccoglie disapprovazioni al piano di chiusura di numerosi ospedali. Avvertenza ai lettori: qui non c’entra la destra e la sinistra. Basta a dimostrarlo il fatto che la proposta proviene da un governo di destra e le proteste arrivano da regioni e comuni dello stesso schieramento. Come lo dimostra il fatto che un tale percorso è già stato intrapreso, non senza difficoltà, da alcune regioni storicamente di sinistra, vedi Emilia Romagna e Toscana, ad esempio. E ancora, che la ristrutturazione della rete ospedaliera era stata già prevista nel 1996 da Guzzanti allora ministro alla sanità del governo Dini. In effetti, come ci dice il prof. Luciano Donati, primario endocrinologo, “i provvedimenti presi dai nostri ministri della Sanità Bindi, Veronesi, Sirchia, indipendentemente dalla loro connotazione politica, hanno cercato e cercano di tamponare una situazione che va continuamente fuori controllo. Ed è difficile, al momento, intravedere vie d’uscita capaci di coniugare un’efficace ed efficiente cura del malato con una spesa sostenibile. E il problema non è solo italiano. Basti pensare a Clinton che dovette fare marcia indietro sulla sua proposta di tipo europeo. Occorrono scelte lungimiranti, scevre da calcoli elettoralistici di basso profilo. Il progressivo deficit della sanità è dovuto anche, paradossalmente, al fatto che la medicina, in continua evoluzione tecnico-scientifica, cura oggi malattie che solo qualche anno fa non erano curabili, ma a costi più elevati, indipendenti dalle politiche pubbliche. Si aggiunga che l’età media dei paesi industrializzati è in continuo aumento e con essa, in modo esponenziale, anche le malattie. Occorre dunque personale medico e paramedico sempre più specializzato, macchinari e strutture che vanno in rapida obsolescenza, da rinnovare rapidamente. ” Procediamo con ordine e cerchiamo di capire in cosa consiste il patto di stabilità firmato tra stato e regioni l’8 agosto 2001 col quale i governatori si sono impegnati a portare il numero dei posti letto entro la soglia del 5 per mille abitanti. Anzi per meglio dire del 4 per mille riservato agli “acuti” e dell’1 per mille ai lungodegenti. In Italia contiamo un totale di 295.809 posti letto tra pubblico e privato mentre secondo la nuova ripartizione dovremmo averne 289.200. “Basta” tagliarne 6.609? A parte il fatto che già questo non sarebbe semplice, si aggiunge una situazione complessa: occorre tener conto del 4 e dell’1 per mille, cioè della diversa destinazione di questi posti, ben diversa dall’attuale struttura ospedaliera. Motivo per cui se una parola dovesse esprimere questo cambiamento, dovremmo parlare non di tagli ma di riconversione. Si tratta cioè di trasformare quello che esiste, non di eliminarlo. A cominciare dai piccoli ospedali, quelli cioè con meno di 120 posti letto che nel nostro paese sono 300 su un totale di 1200. Lo imporrebbe l’età degli italiani che avanza e richiede un’assistenza che ha nella cronicità una caratteristica predominante; lo richiederebbe il fatto che il 57 per cento degli ospedali ha un’età media di 70 anni con punte di 110-140 anni in Umbria e Lazio; lo invocherebbe il confronto con gli ospedali europei; lo esigerebbe il progresso tecnologico che con tecniche sempre meno invasive ha ridotto di gran lunga i tempi di degenza. Quello stesso progresso che richiede anche costi talmente elevati da giustificare l’esistenza e la creazione di poli di eccellenza che ne ammortizzino le spese. Un esempio. Se oggi una persona ha un’occlusione coronarica, l’applicazione di uno stent, praticabile anche con un’anestesia locale, risolve il problema molto più velocemente che nel passato quando bisognava ricorrere ad un intervento chirurgico complesso. Il tutto grazie anche alla possibilità di eseguire esami accurati quali – nel caso in questione – coronarografia e scintigrafia miocardica, che richiedono macchinari specializzati. Si capisce subito che interventi del genere non possono essere eseguiti nell’ospedale sotto casa non solo per una questione di costi quanto per un fatto di specializzazione medica e conseguente sicurezza del paziente. D’altra parte è abitudine remota negli italiani affidarsi ai grandi e rinomati ospedali per le situazioni più delicate (vedi box). Rientra poi nella Conferenza stato- regioni l’accordo secondo cui 735 interventi chirurgici ed esami diagnostici invasivi possono essere effettuati in regime di day-hospital: dalla cataratta alle adenoidi, dalla liberazione del tunnel carpale all’artroscopia ed altri. Certo nessuno predilige la permanenza in ospedale, anche perché purtroppo non vi si sta bene nella maggior parte dei casi, ma se il movente di tutta questa operazione fosse solo o prevalentemente economico… Il sospetto in tanti c’è ma vogliamo credere alla buona fede di chi queste riforme le promuove. Così come vogliamo credere che non si finisca per privilegiare il privato rispetto al pubblico. Non dimentichiamo che l’Italia ha la spesa sanitaria (5,5) più bassa di quasi tutti i paesi dell’Unione europea e sotto la media Ocse (5,7) riguardo al Pil. E che nel periodo dal luglio 2001 al luglio 2002 mentre la spesa per alberghi, ristoranti e pubblici esercizi, secondo dati Istat, è aumentata del 4,2 per cento, quella per la salute ha subìto una variazione solo dell’1,2 per cento. Dati questi che insieme ad altri (vedi grafico) testimoniano una riduzione, in percentuale, degli investimenti pubblici nel campo della sanità. Siamo d’accordo sulla necessità di evitare gli sprechi (20-30 mila miliardi delle vecchie lire). Ma forse si tratta di fare bene i conti in “famiglia” e vedere a cosa dare la priorità. Vediamo com’è andata in qualche regione. Chiusura sì, chiusura no. Pareri a confronto “Gli ospedali più che essere chiusi sono stati riconvertiti per le lungodegenze, strutture che tra l’altro, dato il loro minore impatto tecnologico, comportano una riduzione del costo dei posti letto”. Il prof. Mario D’Astuto, primario di chirurgia, ci spiega come ha fatto l’Emilia Romagna a riorganizzare la sua rete ospedaliera. “Il processo è stato avviato già dagli anni Ottanta – continua – e ha incontrato forti resistenze nella popolazione. La regione ha però fatto uno studio dettagliato delle varie realtà locali. Ad esempio si sono fatti dei calcoli sui tempi di percorrenza delle ambulanze o sulla fattibilità del trasporto in elicottero che può risultare difficile in condizioni climatiche avverse. Si è arrivati così a garantire interventi entro un quarto d’ora su tutto il territorio. Inoltre la viabilità favorisce il raggiungimento del più vicino ospedale a non più di mezz’ora di percorso”. Un fiore all’occhiello dell’Emilia Romagna ad esempio è l’ospedale di Bazzano che insieme ad altri seppur piccoli offre un’elevata produttività ed efficienza, motivo per cui non ha subito modifiche. Il segreto del cambiamento? “Si sono cercate soluzioni condivise e non imposte dall’alto, con un’opera paziente svolta attraverso convegni, dibattiti, incontri con la cittadinanza, in maniera che tutti fossero partecipi delle decisioni prese. Inoltre in Emilia Romagna esiste un ottimo rapporto fra pubblico e privato ma questo non è di tutte le regioni…”. Per Alberto Zoli, direttore sanitario dell’ospedale Niguarda di Milano esiste una via alternativa alla chiusura totale dei piccoli ospedali come al mantenimento dello stato attuale. Partendo dalla sua esperienza di direttore dell’Asl di Ravenna dove sono stati riconvertiti otto piccoli ospedali, ne spiega il percorso: dal concentrare in alcuni poli principali le attività di chirurgia, ostetricia e ginecologia all’attivare un sistema territoriale di ambulanze e postazioni di primo intervento allo sviluppare il settore della lungodegenza. “Il polo di eccellenza, comunque – dice -, non sostituirà mai la funzione di base degli ospedali territoriali e non è detto che un piccolo ospedale non possa diventare un centro di riferimento grazie ad una programmazione oculata”. C’è anche chi è scettico riguardo a questa proposta, se non altro perché è da 30 anni che ne sente parlare. Mario Silvestri, primario di medicina all’ospedale di Marino (Rm), dice di aver appreso dai giornali la notizia della chiusura della struttura in cui lavora. “A dire il vero – afferma – qui la vita continua come prima, anzi stiamo restaurando alcuni reparti. È vero e tutti sappiamo che esistono reali difficoltà economiche ma non vedo come potrebbe essere chiuso un reparto dove per essere ricoverati bisogna sempre fare la fila. Io credo che in Italia non siamo anco- ra nelle condizioni di poter portare fino in fondo una proposta del genere e che comunque parlarne sui giornali serva a creare nell’opinione pubblica l’idea che bisogna risparmiare. A noi due volte all’anno viene chiesto di “riparametrare” il reparto, cioè proporre l’aumento o la diminuzione dei posti letto. Non è che l’ampliamento non ci venga accordato però dobbiamo cavarcela con lo stesso personale e se uno va in pensione o si trasferisce non viene sostituito. Dopodiché la cosa migliore è ridurre il numero dei letti, non le pare?”. “Ma nell’immediato cosa si potrebbe migliorare?” gli chiedo. “Intanto si possono cambiare le strutture architettoniche passando dalle grandi camerate alle stanze per 1-2 persone. Inoltre prevedere due tipi di degenza, quella riservata alla fase diagnostica per la quale dovrebbero bastare 3-4 giorni e quella per la fase cronica. Se è vero che per la diagnosi di un tumore si ricorre al centro di eccellenza è anche vero che poi ci si rivolge all’ospedale vicino per il periodo successivo che può essere anche lungo. Infine bisognerebbe sviluppare i centri di assistenza domiciliare (cad) che tra l’altro farebbero risparmiare tantissimo visto che un giorno di degenza costa dai 350 ai 500 euro”. Immaginate, ad esempio, poter fare la chemioterapia a casa? Anche secondo il ministro Sirchia sarebbe possibile. La dottoressa Flavia Caretta, geriatra presso l’Istituto policlinico Agostino Gemelli di Roma, seppur d’accordo coi princìpi di base della riforma sottolinea l’importanza dell’attenzione alle realtà locali evidenziando come sia impossibile fare un discorso generale e tantomeno generico. “Solo nella valutazione di ogni singolo caso si può capire cosa è meglio fare e sicuramente anche punti di vista contrapposti possono essere validi se basati su dati reali. Quello a cui bisogna fare attenzione è garantire pari possibilità di trattamento su tutto il territorio nazionale. Se condivido l’esistenza dei poli di eccellenza, penso però che non sia neanche giusto che una persona dalla Sicilia debba andare a Milano per curarsi. Bisognerebbe che tali strutture fossero più diffuse”. Assistiamo infatti ad un via vai dal sud al nord che vede al primo posto la Lombardia come regione ospitante seguita dal Veneto. Al contrario il primato spetta alla Basilicata seguita da Molise, Sicilia e Calabria. E per trovare i centri di cui si ha bisogno si può cliccare su www.ospedalionline. com. Sperando che si riduca nel tempo la mobilità dei pazienti che ha toccato in questi ultimi anni punte superiori al milione e mezzo di persone. Non si chiude l’ospedale, si trasforma Di padre siciliano e madre milanese, Girolamo Sirchia era già molto conosciuto in Italia per i suoi studi sull’immunoematologia applicata ai trapianti d’organo e sulle cellule staminali del sangue. Nel 1972 fonda il “Nord Italia Transplant” che, primo in Italia, si occupa del reperimento di organi per il trapianto. Docente universitario, primario, membro di varie commissioni nazionali del settore medico è ministro della Salute dal maggio 2001. Così ci spiega la sua riforma. Sig. ministro, di fronte alla chiusura di tanti piccoli ospedali la reazione più comune dei cittadini è stata la protesta. Come spiegare loro i contenuti e le motivazioni di questa trasformazione? “C’è un difetto di cultura e un difetto di comunicazione. Siamo fermi a venti, trenta anni fa, quando avere un piccolo ospedale sotto casa era un vanto per i sindaci e per la comunità. Oggi una struttura con un volume di interventi minimo, che tratta per esempio pochi parti l’anno o non dispone di una unità coronarica specializzata, non è più una sicurezza. Quel che dobbiamo fare è informare meglio i cittadini, spiegare che la situazione è cambiata: da un lato c’è il progresso della scienza medica, dall’altro l’invecchiamento della popolazione e l’aumento della cronicità. “Il senso del piano di riordino per gli ospedali è proprio quello di migliorare l’eccellenza, incrementando il numero di ospedali capaci di erogare prestazioni avanzate, oggi insufficienti in alcune regioni, ma anche di dare finalmente risposta ai bisogni assistenziali dei malati cronici, degli anziani, soprattutto attraverso i servizi sul territorio e direttamente a casa del malato”. Se non erro la sua proposta si basa su un principio di riconversione delle strutture ospedaliere. Che cosa farà perché il cambiamento previsto non rimanga solo nelle intenzioni, come ad esempio è successo per i manicomi che tuttora non sono stati adeguatamente adeguatamente sostituiti? “Non si chiude l’ospedale, si trasforma. Rimarranno ospedale e personale ma serviranno soprattutto a curare la cronicità. Ogni struttura minore dovrebbe infatti mantenere o attrezzare un buo pronto soccorso, una diagnostica di base, un reparto di osservazione e poliambulatorio specialistico oltre che dotarsi di reparti di riabilitazione e convalescenza per i pazienti anziani e cronici, portando questa assistenza anche al domicilio dei pazienti.Accanto a questi “centri distrettuali di salute” verranno costruiti 200 centri di eccellenza, soprattutto nel Sud. I Piani sanitari regionali hanno recepito queste indicazioni, ci sono accordi di programma vincolanti, finanziamenti statali per la riqualificazione della rete ospedaliera come per la costruzione di hospice, controlli semestrali da parte del ministero sullo stato di avanzamento dei progetti. In più ci sono, oggi, in una tensione federalista, accordi stato-regioni per la riorganizzazione della rete ospedaliera, per l’appropriatezza degli interventi, per lo sviluppo della day surgery”. Concretamente con quali strumenti pensa di poter garantire il “diritto alla salute” per tutti, considerando anche che le regioni sono molto diverse fra loro? “Lo strumento che funziona meglio nell’attuale scenario devolutivo ed è stato assunto a modello è quello degli accordi stato-regioni e la conseguente attivazione di tavoli congiunti per il monitoraggio dei risultati e l’aggiornamento dei programmi. Il ministero cambierà fisionomia assumendo sempre più il ruolo di garante della salute dei cittadini e dell’erogazione nei modi e tempi appropriati dei livelli essenziali di assistenza, promuovendo specifiche tutele per categorie particolari di cittadini come quelle che vivono in zone disagiate come le comunità montane e le isole minori “.

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