Parlamento alla prova del riscatto

Il governo Monti e la crisi offrono alle Camere un’occasione insperata: recuperare autorevolezza e sintonia popolare.
Parlamento

Silvio Berlusconi, pur mai incappato in un esplicito voto di sfiducia, un sabato sera è salito al Quirinale per rassegnare le dimissioni da capo del governo. Che il presidente Napolitano in un certo senso le attendesse e avesse già pronto il dopo, lo si era capito dalla nomina, due giorni prima, di Mario Monti a senatore a vita. Per meritarsi tale nomina Monti deve pur aver «illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico o letterario», come vuole la Costituzione. In effetti, il prof. Monti ha dato prova di sé come civil servant: è stato membro italiano della Commissione europea per ben due mandati. Nominato dal governo Berlusconi nel 1994 e confermato da D’Alema nel 1999, ha esercitato l’incarico con autorevolezza e competenza, ma soprattutto con indipendenza. Le consultazioni di rito sono state svolte dal capo dello Stato in tempi record, tanto che l’indomani dalle dimissioni, domenica 13, Mario Monti riceveva l’incarico di formare il nuovo governo.

 

Pochi giorni di trattative con i partiti e mercoledì il giuramento: 17 ministri, tutti estranei al Parlamento alla politica attiva, provenienti dal mondo dell’università, della pubblica amministrazione, delle grandi imprese. Volti e nomi da imparare a conoscere. L’operazione, con Giorgio Napolitano al timone, aveva l’intento di coagulare intorno al nuovo governo una maggioranza quanto più ampia possibile, per superare il clima di contrapposizione che ha accompagnato gli ultimi anni di vita istituzionale e per garantire al nuovo esecutivo il sostegno necessario per il varo delle misure che – speriamo – potranno portare il Paese fuori dalla crisi. Misure tutt’altro che indolori.

 

Bisogna dire che le forze politiche si sono dimostrate responsabili e al momento della fiducia, il governo Monti ha racimolato numeri record: solo la Lega Nord, in compagnia di qualche isolato parlamentare, ha votato contro.

 

Queste novità sono state accompagnate dalla speranza che si trovi la strada per uscire dalla crisi, ma anche da tante domande e da un diffuso disorientamento.

Ci si chiede infatti se sia giusto che gli eletti dal popolo cedano il passo a personaggi pur illustri ma privi della legittimazione democratica del voto popolare. Oppure il presidente della Repubblica non ha esagerato nell’esercizio dei suoi poteri, forzando la mano per mettere su un nuovo governo invece di consentire nuove elezioni?

 

A queste domande pensiamo si possa rispondere all’insegna della fiducia per l’operato del capo dello Stato; egli infatti ha agito in maniera eccezionale in presenza di eventi eccezionali: la più grave crisi dal dopoguerra. Piuttosto se c’è una constatazione amara da fare, questa riguarda il livello della classe politica, mostratasi del tutto impreparata ad affrontare un evento di questa portata. Una inadeguatezza che non riguarda solo le leadership italiane, ma anche quelle europee e degli altri Stati membri.

 

Se un rammarico bisogna avere, è questo. La selezione della classe dirigente da troppo tempo non ha premiato i migliori: il sistema democratico ha ceduto alle vie facili al consenso, si è imbarbarito e la classe politica si è tramutata in “casta”. In tempi bui, però, torna la necessità di avere alla guida qualcuno che sappia davvero il fatto suo, che abbia la stoffa da leader senza le degenerazioni del leaderismo, che sappia costruire un team di governo unito, con un programma condiviso e provvedimenti da varare possibilmente all’unanimità.

 

A fronte di queste qualità, la fiducia e il sostegno del Parlamento devono venire di conseguenza. Non è certo positivo che la selezione di questa nuova classe politica sia avvenuta per cooptazione; ma la “ratifica democratica” operata dal Parlamento deve servire da garanzia. È proprio il Parlamento, infatti, che va posto al cuore di questa operazione. Spetta alle Camere, che rappresentano i cittadini, sentirsi e agire da protagoniste di questa stagione politica tanto impegnativa.

 

Al governo dei non-politici spetta l’iniziativa, ma il Parlamento non dovrà andare a rimorchio. Anzi, dovrà tenere alta l’asticella della politica, verso mete degne della gravità del momento e della nostra storia. Così, ad esempio, se Monti ha avuto subito il merito di far tornare l’Italia protagonista in Europa accanto a Merkel e Sarkozy, è dal Parlamento che gli deve venire con forza l’indicazione a osare una coraggiosa rifondazione dell’Europa su basi politiche e istituzionali forti. A guardare, insomma, a De Gasperi, Adenauer, Schuman, per poter essere, con gli altri leader, tra i nuovi padri dell’Europa. Altrimenti anch’egli sarà un ragioniere del suo fallimento.

 

Se verrà prospettata una visione chiara e piena di futuro, i cittadini non mancheranno di sostenere il governo, pur nelle scelte difficili che dovrà compiere, e si riconosceranno nel Parlamento, ricostruendo finalmente un legame pericolosamente spezzato.

Iole Mucciconi

 

Il ruolo di Napolitano

 

Guai a chi tocca l’Italia unita

 

Se l’epopea della Seconda Repubblica è agli sgoccioli, ce lo diranno i posteri. Quello che di certo si può costatare ora è la corroborante vitalità dell’ottantaseienne Giorgio Napolitano. A fine novembre è uscito il volume che raccoglie le sue riflessioni sui «150 anni della nostra Italia». Il titolo – Una e indivisibile – esprime in pienezza i sentimenti dell’inquilino del Quirinale.

 

Per compito istituzionale è chiamato a essere il «rappresentante dell’unità nazionale», ma le vicende governative degli anni recenti – con quel progetto di federalismo dall’incerta fisionomia – hanno assegnato a Napolitano inedite responsabilità di vigile custodia.

Prova ne fu il fermo tono della lettera inviata a Berlusconi nel luglio scorso, quando furono inaugurate nella Villa Reale di Monza le sedi distaccate di alcuni ministeri. Già prima aveva dovuto sorbirsi la sceneggiata politica della Lega Nord, refrattaria a definire una data (il 17 marzo, alla fine) per i festeggiamenti unitari.

 

Quel che non va proprio giù al presidente è il fatto che un partito che raccoglie il consenso di un decimo degli elettori riuscisse a signoreggiare sull’intero Paese, spargendo una cultura dell’esclusione e del localismo.

Così è probabile che anche voi abbiate pensato alla paternità di Napolitano riguardo all’idea di un nuovo ministero dalla denominazione inequivocabile: Coesione territoriale.

Pensa al Sud e al Nord. A Torino: il 20 novembre scrive al direttore de La Stampa, grato per l’attenzione riservata alle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità. Un passaggio è eloquente: «C’era bisogno di una scossa nazionale unitaria di fronte alle difficoltà, alle derive, agli scoramenti».

 

Qualche giorno prima il capo dello Stato aveva ricevuto i “nuovi italiani”, ovvero quei giovani che hanno chiesto di diventare nostri concittadini non appena diventati maggiorenni. Si tratta di ragazzi nati in Italia o portati da genitori esteri. La normativa vigente è ancora restrittiva, tanto che ci sono vari progetti di riforma delle leggi sulla cittadinanza. Ma sinora era impossibile procedere nelle commissioni parlamentari. Il presidente invita perciò a mutare logica. In fretta.

Questi bambini e ragazzi sono quasi un milione. Di questi 700 mila studiano nelle nostre scuole. «Non capire quanto sia stato e sia necessario il contributo dell’immigrazione per il nostro Paese significa semplicemente non saper guardare alla realtà e al futuro», ha commentato Napolitano. Ma adesso non chiedetevi chi ha suggerito di aggiungere alla denominazione del ministero della Cooperazione internazionale il termine “integrazione”.

Paolo Lòriga

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