Paradiso vo cercando

Penetrare nella cont e m p l a z i o n e . Dev’essere questo lo scopo del vivere e del creare di Laib, se le sue opere – nella prima rassegna italiana in un museo pubblico – suscitano un’attrazione fatale in chi ha il tempo di fermarsi a osservarle. Perché per Laib il tempo e il silenzio non sono qualcosa di labile cui si può sfuggire, ma l’essenza stessa di un possibile approccio con la sua arte. Senza silenzio infatti non vi si entra. Accostarsi perciò nella sala dove gli spazi si illuminano a vicenda nel loro candore e sentirsi con l’anima su quel quadrato in polline di nocciolo come se quello fosse il vero nostro posto – quasi una meta finalmente raggiunta -, è un’esperienza indimenticabile. Ci si trova a contatto con la luce stessa. È come se Laib, adoperando gli elementi più naturali – un quadrato in polline, preceduto da due microcase in marmo bianco, riso e polline stesso – facesse entrare attraverso il simbolo e la materia in una dimensione autentica, quello dello spirito. Qui gli spazi dialogano fra loro, luce nella luce, assorbendo le materie naturali, si direbbe trasumanandole. Ed aspettando l’uomo che, in questo condensato di astrazione delle cose, scopre un nuovo tipo di bellezza, dove natura e spirito stanno insieme con assoluta semplicità. Perciò, se il visitatore ha tempo, si sente subito trascinato in alto. Forse è ciò che l’artista tedesco – classe 1950 – desidera, lui che immerso da anni nella spiritualità orientale, ha compreso come le cose più naturali – riso latte cera d’api – siano veicoli per esprimere la vita nella sua bellezza in una forma rinnovata. Davanti alle ecoinstallazioni perciò non si avverte nulla di cerebrale, di intellettualistico: nemmeno la voglia di stupire ad ogni costo, come può essere per altri artisti c o n t e m p o r a n e i . Nella sala dove si innalzano degli ziqqurat in lacca birmana – dalle tinte rosse o scure – è facile vedervi una sorta di scala del cielo, segno di un viaggio verso un possibile paradiso: itinerario che Laib condensa nella visione dei gradini verso il cielo. E che l’interscambio tra le forme d’arte – architettura scultura pittura – sia cosa del tutto normale, appare dal fatto che ne siamo subito attratti, senza sforzo. Davanti alle opere di Laib infatti non c’è fatica. Questa è la meraviglia. Basta saper fermarsi e ci si trova a casa. Anche un semplice blocco quadrato di marmo bianco, traslucido a causa del latte versatovi, parla di comunione fra le cose create. Percezione che in Laib è fortissima, perché per lui bellezza è sinonimo di natura, cioè di essenziale, tradotto in forme di immediata semplicità. Forse qualcuno resterà stupito – o inorridito – di fronte a sei barche in cera d’api su tralicci rigorosamente di legno che scandiscono lo spazio. Eppure c’è una eleganza che ha il sapore di una musica invisibile. Quale armonia cromatica infatti – nocciola grigi bianchi -, che senso di liberazione camminando tra queste pareti, ove le barche simboleggiano un nostro possibile viaggio verso il fiume della Vita. Su, sempre in alto, sospese fra cielo e terra. Come Laib, che ha viaggiato e viaggia dall’Estremo Oriente agli Usa, le cose che lui crea portano in sé il senso di voler percorrere spazi insondati. Ma attraverso la natura, perché essa è – come notavano i mistici medievali – scala verso l’Assoluto. Mettersi mentalmente, nella prima sala, dentro il quadrato di polline o immaginarsi salire i gradini dello ziqqurat viene spontaneo al visitatore attento. Perché con Laib l’arte non è solo fatto estetico passeggero, ma emozione che prende l’intelligenza e il cuore. Non si cancella, anche quando gli uominimarionetta del nostro tempo, attaccati ai cellulari ed al frastuono, fuori del Macro, tentano di togliercene la presenza. Invano.

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