Paradigma Mandel’stam

Vorrei che nelle ultime classi superiori fosse obbligatoria la lettura di L’epoca e i lupi di Nadez?da Mandel’s?tam, e dei documenti de La Rosa bianca: come antidoto, per le nostre disorientate ultime generazioni, sia alle minacce totalitarie sempre possibili, sia, soprattutto oggi, alla mentitamente naturale mancanza di valori e di significati della vita nella società odierna. Osip Mandel’s?tam, uno dei più grandi della poesia del Novecento, moriva prigioniero sovietico settant’anni fa, i ragazzi della Weisse Rose erano impiccati, testimoni della libertà, nella Germania nazista cinque anni dopo. Nazismo e comunismo sovietico si equivalevano, come ha dimostrato il grande romanzo di V. Grossman (molto osteggiato in Italia) Vita e destino. Mandel’s?tam è un paradigma, cioè un esempio: basta la sua vicenda (e ce ne sono milioni di altre, ma non allo stesso livello di grandezza umana e di lucidità poetica) a svergognare la Rivoluzione d’Ottobre. Il poeta ebreo russo visse una vita attentissima e insieme sognante e trasognata nel periodo più feroce, criminale e macellaio della rivoluzione, finendone vittima innocente a pochi mesi, forse, di distanza da un altro grandissimo innocente, Pavel Florenskij. Lui e sua moglie, che ce ne tramanda quasi miracolosamente la memoria e i versi, costatarono con gioia sgomenta che nell’Urss si poteva uccidere per una poesia, e morire per la poesia, e dunque che la poesia era davvero importante, e lo era anche per la gente comune (e da noi?!). Certo Osip non le mandava a dire quando trovava, e senza sforzo, il pazzesco coraggio di definire pubblicamente l’onnipotente Stalin montanaro sbaragliamugiki (sterminatore dei contadini falsamente detti ricchi, i kulaki). E di passeggiare per la piazza rossa poetando in mezzo alla propaganda: Per una beata parola senza senso/ io pregherò nella notte sovietica. Non aveva paura perché metteva la vita al di sopra di tutto (la vita, non la sopravvivenza), e poneva lontanissime in basso le ideologie. Mi colpisce molto, tra mille cose, questa corrispondenza: all’inizio dell’età contemporanea Hölderlin dice: Un segno noi siamo senza significato. Cent’anni dopo Mandel’s ?tam dice che il poeta è uno che scuote i significati, mostrando quasi fisicamente qual è il potere della (vera) poesia. Penso allora che l’ombelico culturale del Novecento sia l’anno 1936: Stalin telefona a Pasternak, che si sta interessando alla sorte pericolante di Mandel’s?tam, e gli chiede se quest’ultimo sia un vero artista. Non è questo il punto, gli risponde Pasternak, e lo invita a parlare con lui della vita e della morte. Stalin con incommensurabile meschinità riaggancia. Oggi viviamo in un’epoca talmente mediocre (pur con tutte le eccezioni) che cose del genere ci sembrano marziane. Ma tant’è, se si vuole essere uomini e donne e non solo maschi e femmine. Uno che scrive: Non fare paragoni: chi vive è incomparabile, e che rivolgendosi ai suoi carcerieri li sfida: Togliendomi i mari, la corsa e il volo/ e dando al piede l’appoggio di una terra coatta,/ che cosa avete ottenuto? Bel calcolo:/ non potevate amputarmi le labbra che si muovono, prima di essere un grande poeta è un uomo: prigioniero, pur restando libero, di quello che si definiva comunismo ed era invece il capitalismo della morte. Mandel’s?tam che diagnostica: Alla fine di un’epoca storica i concetti astratti puzzano sempre di pesce marcio, è il poeta del mondo mentre il potere vuole togliergli il mondo, e il poeta del tempo: La poesia è un aratro che dissoda il tempo così che gli strati più profondi del tempo, la sua terra nera, si ritrovano in alto. E lascia a bocca aperta non solo la tempra di quest’uomo, ma la sua eleganza, la sua classe, quando risponde a un questionario con mirabile, ironica libertà (che non fu neppure capita, allora, altrimenti l’avrebbero arrestato subito): La Rivoluzione d’ottobre non ha potuto fare a meno di esercitare un’influenza sul mio lavoro, poiché mi ha tolto la biografia, la sensazione di un significato personale. Le sono grato per aver posto fine una volta per sempre alla sicurezza spirituale e al vivere di rendita culturale… Mi sento debitore della rivoluzione, ma i doni che le offro non le sono per ora necessari . Un poeta che dice: No, di nessuno fui contemporaneo, e, senza contraddirsi, di tutti in segreto m’innamoro; e che sentendo avvicinarsi la morte (sorvolo i particolari penosi e ignominiosi per i suoi assassini) lascia questo testamento: Nei libri teneri e nei giochi di bambini/ risorgerò per dire come il sole splende…, è un fratello universale e un padre per i nostri orfani culturali che non sanno come buttarsi via; lui che è morto, dopo vent’anni di resistenza mite e inflessibile, solo perché non ha potuto proprio farne a meno. LE MIE MEMORIE 22.10.1938. Osja, amico mio lontano! Caro, non ho parole per questa lettera che tu forse non leggerai mai. La affido allo spazio. Forse tu tornerai e io non ci sarò più. Allora, questo sarà l’ultimo ricordo di me. Osju?a, com’è stata felice la nostra vita infantile. Le nostre liti, le nostre baruffe, i nostri giochi e il nostro amore. Adesso non guardo nemmeno più il cielo. A chi mostrare le nuvole che scopro? Ricordi i nostri poveri giochi nelle nostre case randage, le nostre tende da nomadi? Ricordi com’è buono il pane che si trova per miracolo e si mangia in due? E l’ultimo inverno a Vorone?. La nostra felice povertà, le poesie. Ricordo, uscivamo dai bagni pubblici, comprammo delle uova o del salame. Passò un carro col fieno. Faceva ancora freddo e io tremavo nella mia giacca (è il nostro destino: ora so che freddo soffri tu). E quel giorno mi è rimasto impresso: ho visto, chiaro fino al dolore, che quell’inverno, quei giorni, quelle sventure erano la migliore e l’ultima felicità che ci toccava in sorte. Ogni mio pensiero è per te. Ogni lacrima e ogni sorriso è per te. Benedico ogni giorno e ogni ora della nostra amara vita, mio amico, mio compagno, mia cieca guida… Ci scontravamo come cagnolini ciechi, e stavamo bene. E la tua povera testa delirante, e tutta la follia nella quale abbiamo consumato i nostri giorni. Com’eravamo felici, e come l’abbiamo saputo sempre, che quella era la vera felicità. La vita è lunga. Deve essere difficile e lungo morire da solo, da sola. Possibile che proprio a noi inseparabili dovesse avvenire tutto questo? Noi cagnolini, tu angelo, ce lo siamo meritato? E tutto va avanti. E non so nulla. Ma so tutto e ogni tuo giorno, ogni tua ora mi sono visibili e chiari come nel delirio. Mi sei comparso in sogno ogni notte, e io continuavo a chiederti cos’era successo, e tu non rispondevi. L’ultimo sogno: in uno sporco buffet di uno sporco albergo compro del cibo. Sono con me degli uomini completamente estranei, e dopo aver pagato capisco che non so dove portare quel ben di Dio perché non so dove sei tu. Quando mi so?ura: Osja è morto. Non so se sei vivo, ma da quel giorno ho perso ogni tua traccia. Non so dove sei. Se mi senti. Se sai quanto ti amo. Non ho fatto a tempo a dirti quanto ti amo. E non so dirlo nemmeno adesso. Dico solo: per te, per te… Sei sempre con me, e io, selvaggia, cattiva, io che non ho mai saputo piangere, adesso pian-go, piango, piango. Sono io, Nadja. Tu dove sei?. Nadez?da Mandel’s?tam (da N. Mandel’s?tam, Le mie memorie, trad. S. Vitale, Garzanti 1972, pp. 482-483).

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